Negli anni ottanta, in NBA, iniziò a
svilupparsi un concetto tattico noto col nome di “Twin Towers”. Gli Houston Rockets furono i primi ad applicarlo ai
loro schemi, decidendo di scegliere, prima al draft ’83 e poi al draft ’84,
Ralph Sampson (224 cm
di altezza) e Hakeem Olajuwon (213
cm), per poter avere una coppia di lunghi decisamente
dominante sotto entrambi i canestri. Purtroppo per loro, però, l’esperimento
fallì ben presto, a causa soprattutto dei problemi fisici di Sampson che impedì
ai Texani di provare a lungo con questa strategia. Tuttavia il concetto non
venne totalmente abbandonato nella lega e, alla fine degli anni novanta, fu
utilizzato con successo dai San Antonio Spurs di David Robinson (216 cm) e Tim Duncan (211 cm). Lo strapotere
fisico che esercitò Shaquille O’Neal nella NBA degli anni duemila contribuì,
però, a disperderlo, tant’è che oggi i team preferiscono contare su un solo “big man” sotto il canestro. E il
centro, ritenuto oggi da molti analisti, l’erede di Shaq, risponde al nome di:
Dwight Howard.
D12 era il pezzo più pregiato della
free-agency 2013 e 6-7 squadre hanno fatto di tutto per cercare di convincerlo
ad indossare la loro divisa, ma il centrone nativo di Atlanta ha deciso di
accettare il quadriennale da 88 milioni di dollari propostogli dagli Houston
Rockets. Dal mio punto di vista, vedo molti aspetti positivi in questa
acquisizione: prima di tutto la città. Houston non è Los Angeles, è più
piccola, ci sono meno pressioni, ha una tradizione non troppo pesante e non è
costretta a vincere in ogni singola stagione, l’ambiente ideale per uno come
Howard che il meglio di sé l’ha dato in una città, per certi versi simile, come
Orlando. Los Angeles l’ha semplicemente inghiottito e ha dimostrato di essere
un ambiente troppo duro per lui, troppe richieste, dal punto di vista dell’atteggiamento
in campo prima ancora che della produttività numerica, troppe pressioni per un
giocatore ancora molto carente dal punto di vista mentale, troppe leggende con
cui confrontarsi tra cui Shaq, Kareem e Wilt solo per citare i suoi pari ruolo.
In secondo luogo l’uomo simbolo del
roster. James Harden può essere il suo compagno ideale, sia dal punto di vista
tattico, l’anno scorso sfruttava molto le penetrazioni, ma ad OKC ha dimostrato
di essere eccellente sia da fuori che appena dentro l’arco, sia dal punto di
vista caratteriale, non avendo quella personalità opprimente e quell’
attenzione, quasi maniacale, che ha Kobe in tutti gli aspetti del gioco. Harden
non è esigente come il 24 giallo-viola e questo aspetto può giovare a Dwight,
permettendogli di essere più sé stesso e con un peso in meno sulle spalle. Inoltre
sono convinto che i due condivideranno insieme le pressioni, senza che uno
schiacci l’altro.
Terzo punto positivo: la squadra. I
Rockets hanno un gruppo giovane e talentuoso, che ruoterà intorno a lui e ad
Harden. Questo gli permetterà di fare anche da esempio, non dovendosi misurare
con giocatori campioni NBA come Gasol o vincitori di MVP della regular season
come Nash. Inoltre potrà giocare liberamente sotto canestro, non dovendo
dividere l’area con un altro lungo come ai Lakers, e aprirà molti spazi sul
perimetro per i suo compagni.
Non è tutto oro quel che luccica però. Sulla
carta Houston è proiettata nell’elite della lega, ma molto dipenderà dal
rendimento di Howard stesso. E non sto parlando del fare 20+12 a partita come è abituato,
il punto di svolta sarà il carattere che metterà in campo; se riuscirà a
dominare le partite, dopotutto dal punto di vista atletico e fisico non ha
rivali nel suo ruolo, allora Houston potrà fare la voce grossa ad Ovest, ma se
continuerà a giocare superficialmente come ai Lakers, allora i sogni di titolo
dei tifosi Rockets potranno restare nel cassetto. Quello che contraddistingue i
campioni è la grinta, la voglia di primeggiare, la cattiveria agonistica che
mettono in ogni gara, sanno che oltre ai numeri devono dare l’anima se vogliono
vincere. Howard deve ancora capirlo, le potenzialità le ha tutte, se recupera
bene dal suo infortunio alla schiena, potrà tornare a dominare i pitturati NBA
col fisico e coi muscoli e Houston può essere la città giusta per far ricredere
i suoi “haters” e i tifosi potranno
godersi la loro nuova torre. Ma, dovesse anche vincere un titolo nella franchigia
texana, rimarrà sempre il ricordo di aver fallito ad L.A. e non aver domato il
ricordo ingombrante di Shaq, dopotutto come ha detto la stessa leggenda dei
Lakers: “Me l’aspettavo non tutti possono
reggere la pressione delle luci della ribalta di L.A. Howard ha scelto la
soluzione più semplice e ha optato per una piccola città come Houston. Si, ho
detto proprio una piccola città".
Che dire, Shaq is always Shaq man!
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