domenica 30 giugno 2013

AN ENIGMATIC TRADE





La notte del draft appena svoltosi è stata teatro di molte sorprese come non se ne vedevano da tempo. Prima di tutte, il mega scambio che ha spedito i pilastri dei Celtics, Pierce e Garnett, a Brooklyn e, successivamente, la sorpresa di Anthony Bennett con la prima scelta assoluta che ha stravolto l’ordine delle chiamate a venire. Ma, a mio modesto avviso, c’è stato un altro evento che è passato decisamente in secondo piano e che invece può avere interessanti ripercussioni sulla prossima stagione. Mi riferisco alla trade che ha portato, a Philadelphia, Nerlens Noel e una prima scelta al draft 2014 e, a New Orleans, Jrue Holiday e la chiamata numero 42 di questo draft, Pierre Jackson.

Solitamente, una volta eseguito uno scambio, la prima cosa a cui si pensa è, potenzialmente, chi ci ha guadagnato e chi ci ha perso, ma è su questo punto che tal affare si complica, diventando difficile da decifrare. Partiamo da Philly: quale può essere il motivo che ti porta, in maniera a dir poco sorprendente, a cedere il tuo miglior giocatore, all-star di soli 23 anni? La risposta più probabile è ottenere in cambio un atleta capace di modificare in meglio gli equilibri tecnico-tattici. Ma è Noel questo giocatore? La risposta, per me, è no.

Il prodotto di Kentucky è sicuramente un buon prospetto, era considerato infatti da molti analisti una probabile prima scelta, ha atletismo, esplosività, una buona etica lavorativa e un fiuto notevole per la stoppata (4.4 di media coi Wildcats), ma ha un ginocchio rotto che non gli permetterà di giocare fino a dicembre-gennaio, non ha movimenti affidabili sotto canestro, deve migliorare nell’1 vs 1 difensivo e, non ultimo, ha giocato appena 24 partite al college e nemmeno di gran livello. L’NBA è un'altra cosa rispetto alla NCAA e il ragazzo, pur avendo il talento dalla sua, ne dovrà fare di strada per emergere.

Con il suo acquisto pare ovvio che non confermeranno Andrew Bynum, centro che non ha giocato nemmeno un minuto durante l’anno, prendendo la bellezza di 17 milioni di dollari, ed è ricordato più per le pettinature, a dir poco orrende, che per altro. Noel prenderà il suo posto, ma prima di poterlo vedere all’opera dovremo aspettare un bel po’, l’infortunio è grave ed i tempi di recupero sono generalmente lunghi. Non c’è solo da disperarsi però nella città dell’amore fraterno, bisogna di fatto tener contro di due aspetti positivi da non sottovalutare: primo, i Sixers, avranno moltissimo spazio salariale da sfruttare per firmare qualche free-agent importante; secondo, hanno ottenuto una prima scelta al prossimo draft che si va delineando come uno dei più ricchi e talentuosi degli ultimi anni.

Passando ai Pelicans la situazione si complica maggiormente. Se c’è un ruolo dove erano coperti è proprio quello dei piccoli: Eric Gordon è un attaccante da 17 punti a partita, dotato di un buon repertorio di movimenti, e Greivis Vasquez è un solido play, decisamente migliorato dal suo primo anno nella lega, che ha dimostrato di costituire un buon tandem con Anthony Davis. L’arrivo di Holiday sconvolge questo equilibrio; prima di tutto è difficile che rimangano tutti e tre, l’indiziato numero 1 a partire è l’ex Clippers, che, tra l’altro, avrà a libro paga per la prossima stagione 14 milioni di dollari, ed in secondo luogo si viene a creare un problema tattico. New Orleans potrebbe anche decidere di giocare con i due play, Vasquez è più passatore e costruttore di gioco e utilizza molto bene i blocchi, mentre Holiday è più realizzatore, con un jumper migliore ed è un difensore più tenace e solido, ma manca un solido tiratore da tre punti che possa far male dal perimetro. Il vero vuoto da colmare per i Pelicans è il ruolo di ala piccola. Certo, Davis, Holiday, Vasquez e Ryan Anderson formano una buona base di partenza, però l’impressione è che i playoff siano ancora parecchio lontani dalla Louisiana.

Tirando le somme, mi sento di dire che ne esce leggermente favorita Philadelphia. I Sixers hanno preso atto del fallimento del progetto Bynum e dunque preferiscono smantellare tutto, mandando via Holiday e risparmiando 11 milioni sul salary cap, e fare un stagione di transizione, che permetterà anche a Noel di non affrettare i tempi di recupero, per puntare poi fortemente sull’estate 2014, dove con una scelta alta e molto spazio salariale possono creare una squadra molto interessante, sfruttando un draft e un free-agency di eccelso valore. New Orleans di contro acquista si un giocatore da 17.7 punti a partita, che può dare uno sprint in più a questa franchigia e aiutare la crescita di Anthony Davis, ma, allo stesso tempo, rischia di bloccare la sviluppo di Vasquez, relegandolo al ruolo di back-up. Inoltre, se non acquistano dei giocatori in grado di colmare i buchi la mia impressione è che resteranno dalle parti della Lottery ancora per molto tempo e, avendo ceduto la loro prima scelta al prossimo draft, rischiano di aver commesso un gravissimo errore, il quale potrebbe avere forti ripercussioni sugli anni a venire per il team.

Solo il campo saprà darci le risposte, ma se siete tifosi di una di queste due squadre, vi consiglio di sperare che i vostri rispettivi general manager abbiano le idee chiare per il futuro, perché l’anno prossimo si prospetta davvero grigia. 




  
   



sabato 29 giugno 2013

L'ANGOLO DEL FOLKLORE – SUICIDIO BRUINS AL TD GARDEN : I BLACKHAWKS CONQUISTANO LA STANLEY CUP


Come il 26 maggio 1999, sotto di un gol al 90°, il Manchester United riuscì a rimontare e vincere 2-1 in maniera incredibile al supplementare contro il Bayern Monaco, aggiudicandosi l'incontro e la Champions League. Come i Miami Heat il 18 giugno scorso, sotto di 5 a 22 secondi dal termine con la serie sul 3-2 per San Antonio, sono riusciti a recuperare lo scarto e a portare la gara all'overtime, per poi vincerla e conquistare il titolo NBA nella successiva sfida. Così i Chicago Blackhawks, con un gol da recuperare con 1 minuto e 18 rimasti sul cronometro, hanno dapprima pareggiato il match sul 2-2 e poi hanno segnato ancora nell'azione successiva, portandosi a casa la gara, la serie (4-2) e con esse la Stanley Cup 2013.

In una porta alta poco più di un metro (122 cm) e larga quasi due (183 cm), quasi interamente coperta dal portiere avversario, segnare non è semplice. Perciò, nonostante il campo sia relativamente piccolo (60x26 mt) e i tiri scoccati verso la porta avversaria siano molti nel computo dei 60 minuti di gioco (circa 30 per squadra), non altrettante sono le segnature a fine partita. Per questo l'hockey è uno sport di squadra, uno dei pochi in cui un giocatore, per quanto fenomenale possa essere, non può giocare per sé stesso e non può vincere una partita da solo. C'è un motivo quindi se gol e assist valgono pressoché allo stesso modo nella valutazione di un atleta, in quanto uniti danno vita al suo score di punti totali. Nessuno può prescindere dall'una o dall'altra categoria, perché le due vanno sempre sommate e, per definire la grandezza di un hockeista, si guarda sempre e solo ai suoi punti totali. Il gioco è quindi tra i più studiati, ragionati e complessi tra i tanti sport non individuali. Se a questo aggiungiamo la tensione del momento, quello decisivo per salire sul trono NHL, capiamo ancor meglio il valore dell'impresa dei Chicago Blackhawks.

Gli hockeisti della Città del Vento avevano iniziato i playoff con la testa di serie numero 1 ad Ovest e il miglior record di tutta la NHL, con 77 punti, che era valso loro il President's Trophy, un premio abbastanza importante, seppur quest'anno di un minor valore a causa di una stagione regolare “accorciata” dal lockout a 48 partite al contrario delle 82 pianificate inizialmente. Dopo aver sconfitto i Minnesota Wild abbastanza agevolmente, nonostante gara 1 in casa si sia chiusa sul 2-1 Chicago solo in overtime, è grazie soprattutto alla netta vittoria in trasferta per 3-0 di gara 4 che hanno superato il turno. I successivi avversari si presentavano abbastanza alla portata dei Blackhawks, vista la sconfitta dei numero 2 di Conference, gli Anaheim Ducks, in 7 partite contro i Detroit Red Wings, che si erano qualificati alla post season con la settima testa di serie. La serie, però, non fu così scontata, tanto che gli uomini di Motown si erano portati sul 3-1 abbastanza nettamente, salvo poi perdere gara 5 allo United Center per 1-4. E' però in gara 6 che Detroit getta al vento la serie, perdendo tra le mura amiche 3-4 e ridando a Chicago il fattore campo, sfruttato alla grande dai Falchi Neri con la vittoria, comunque sofferta, per 2-1 in overtime di gara 7. Più facile la vita nelle finali di Conference contro la testa di serie #5, i Los Angeles Kings, sconfitti nelle prime due gare in casa e in gara 4, prima di chiudere la serie alla quinta partita tra le mura amiche, al secondo supplementare, per 4-3. I favoriti a Ovest hanno quindi mantenuto le attese, arrivando in finale.

Non altrettanto si può dire a Est, dove i Boston Bruins, testa di serie #4, hanno raggiunto le finali. Al primo turno la prova più ardua per i beniamini del Massachusetts è stata piegare le resistenze dei Toronto Marple Leafs in gara 7, dopo essere stati avanti 3-1 nella serie e aver poi rischiato seriamente di perdere nella partita decisiva, sotto 2-4 a 2 minuti dalla fine dei regolamentari. Dopo questa incredibile vittoria, però, i Bruins si sono sbarazzati abbastanza agevolmente dei New York Rangers in 5 partite, tutte abbastanza combattute, ma che hanno visto 4 vittorie di Boston a fronte di una sola degli uomini della Grande Mela. La vera impresa però si compie nelle finali di Conference, contro i favoriti e numeri 1 a Est: i Pittsburgh Penguins. In sole 4 partite, con due vittorie devastanti in trasferta, fatte di 9 gol realizzati e solo 1 subito, e due successi casalinghi più sofferti, Boston chiude la serie con uno sweep che a Pittsburgh non si vedeva dal 1979. Sarà finale contro Chicago.

Con il fattore campo nelle mani, i Blackhawks hanno faticato non poco in gara 1 per avere ragione degli avversari, sconfitti dopo ben 3 overtime (è solo la quinta partita nella storia delle Finali NHL a finire dopo 3 supplementari) per 4-3 con un gol di Andrew Shaw, dopo che gli uomini di casa allo United Center erano stati sotto per 1-3 nel terzo e ultimo periodo. Ecco però che in gara 2 David Paille rimette la serie in parità, segnando il gol decisivo nel primo overtime, dopo che il match si era concluso 1-1, con un netto predominio iniziale tutto a marca Chicago (19 tiri a 4 nel primo tempo!) e il recupero decisivo per Boston. Sempre Paille, coadiuvato dal fenomenale Patrice Bergeron, ha deciso poi anche gara 3, finita 2-0 per gli uomini del TD Garden, dando la possibilità di mantenere il fattore campo e portandosi a condurre la serie, ora sul 2-1. Dopo che erano stati segnati solo 12 gol in 3 partite, eccone arrivarne 11 solo in gara 4, una partita davvero emozionante e senza un attimo di tregua. Chicago prova a scappare 4 volte, ma non andando mai oltre le 2 reti di vantaggio e si fa raggiungere da Boston nel terzo periodo, salvo poi sconfiggere i rivali in overtime con un gol di Brent Seabrook, che decide la partita sul 6-5 finale. Riacquistato il fattore campo, i Blackhawks fanno loro abbastanza agevolmente anche gara 5 in casa, grazie alla doppietta di Patrick Kane, che fissa il risultato sul 3-1 e porta Chicago ad avere 2 match point per raggiungere la tanto agoniata Stanley Cup. Ci si sposta però a Boston per gara 6.

I Bruins, sospinti dal pubblico delle grandi occasioni al TD Garden, dominano il primo quarto, con tante occasioni portate alla porta di Corey Crawford e il gol del vantaggio di Chris Kelly con un assist “alla mano”di Tyler Seguin per l'1-0, meritato e spettacolare allo stesso tempo. Boston continua ad attaccare, spreca 4 penalties a suo favore, che estromettono un giocatore avversario dal ghiaccio, e, sul finire dell'ultima di queste defezioni contro i Blackhawks, subisce incredibilmente il pareggio, nonostante l'uomo in più. Jonathan Toews infila Tuukka Rask tra le gambe dopo un ingaggio ed è 1-1. La partita sembra ora nelle mani di Chicago, che si riversa in avanti, ma le parate del portiere avversario sono decisive per impedire la fuga degli hockeisti in trasferta. Quanto la serie sembra essere diretta verso Windy City ecco però la rete di Milan Lucic che punisce il primo errore di Crawford in tutta la partita. Il portiere dei Blackhawks prima tocca troppo corto il passaggio per il compagno e favorisce il recupero avversario e poi si fa infilare da un tiro ravvicinato, ma non irresistibile di Lucic. È il 2-1 Boston e, nonostante il pressing e gli attacchi di Chicago, tutto sembra finito quando la partita scivola ed entra negli ultimi due minuti di gioco.



Ecco però che accade l'incredibile: nella sua prima azione con il “portiere volante”, a cercare di creare superiorità numerica nell'area Bruins, Chicago colpisce. È una grandissima azione quella degli uomini in bianco, costruita magistralmente e terminata dall'assist Toews e Duncan Keith per la rete del pareggio di Bryan Bickell a porta (quasi) sguarnita. Manca solo un minuto e spiccioli alla fine del terzo quarto, la gara sembra diretta verso l'overtime, ma i Blackhawks hanno in mente di iniziare subito la loro festa. L'azione successiva recuperano il disco, che staziona nella zona del centrocampo quando Johnny Oduya si inventa un tiro incredibile, deviato dal difensore sul palo e poi ribadito in rete dal tap-in di Dave Bolland. 2 gol in soli 17 secondi e Chicago è davanti nel punteggio, che non cambierà più, decretando il 3-2 finale e la vittoria in 6 match della serie finale da parte dei Blackhawks.


Vincere la Stanley Cup è il sogno di ogni ragazzino che inizia a giocare a hockey, è il massimo traguardo nel massimo campionato al mondo. Vincerla così, però, con due gol in un attimo, decisivi, nell'ultimo terzo di gioco, è anche meglio, se possibile. Dave Bolland ha portato con la sua rete Chicago a vincere il suo quinto titolo e il successo della sua squadra resterà per sempre nella storia NHL. La coppa vola nella Città del Vento, dunque, e speriamo di vedere ancora imprese del genere, non solo nell'hockey, ma nello sport in generale.


giovedì 27 giugno 2013

LOST IN CRETACEOUS?





Mi ricordo che quando andavo alle elementari mia mamma mi comprò una maglietta che mi piacque immediatamente. Il motivo era semplicissimo: sul fronte c’era l’immagine di un dinosauro e, a quell’età, erano la mia grandissima passione. Solamente più tardi avrei scoperto che quel rettile rosso era il simbolo di una squadra NBA: i Toronto Raptors. Ora quella maglietta non ce l’ho più, finita chissà dove nel mondo, ma il ricordo che mi lega a quel mio primo, inconsapevole, assaggio di NBA resiste ancora e, perciò, seguo tuttora con discreto interesse quello che avviene oltre i Grandi Laghi, nell’unica franchigia canadese della lega.

Lontanissimi i tempi in cui Vince Carter infiammava il palazzetto con le sue incredibili schiacciate e faceva appassionare al basket anche chi non lo seguiva, oggi i Raptors vagano nei bassifondi della lega dal 2008, con qualche luce e molte ombre. L’ultima stagione ha fatto intravedere un piccolo spiraglio di luminosità dall’arrivo, nel mese di gennaio, di Rudy Gay; tuttavia nemmeno questa mossa di mercato li ha salvati da un record negativo e dall’ultimo posto nella Atlantic Division.

Eppure il quintetto base che ha concluso la stagione 2012/2013 non si presenta male e le basi per poter costruire un buon avvenire ci sono. Gay è la punta di diamante di questa squadra, un giocatore da 19.5 punti di media a partita, versatile e veloce, abile su entrambe le metà campo, predilige l’attacco in contropiede che, ancor più che a Memphis, potrà sfruttare in maniera ottima potendo contare su compagni giovani e rapidi. Il suo compito principale sarà di portare l’esperienza nello spogliatoio ed essere d’esempio per i molti giovani che compongono il team. Ad affiancarlo sul perimetro ci sono DeMar DeRozan, un ragazzo passato dall’essere solo un abile schiacciatore ad una buonissima macchina da punti, soprattutto dalla media, e il playmaker Kyle Lowry, un giocatore d’esperienza dotato di un discreto ball-handing. Il reparto lunghi conta sul possente Amir Johnson, utilizzabile sia da ala forte che da centro, e sul talento lituano Jonas Valanciunas, che già alla sua prima stagione NBA ha fatto intravedere ottime cose, meritandosi anche l’inserimento nel secondo All-Rookie Team. Il vero problema di questo team è però la panchina, troppo scarsa dal punto di vista qualitativo e produttivo per poter dare un ricambio adeguato ai titolari. Le uniche buone soluzioni sono la guardia Terrence Ross e l’ala Linas Kleiza. E’ giusto anche ricordare due giocatori che avevano iniziato la stagione come titolari: il nostro Andrea Bargnani, falcidiato dagli infortuni e principale bersaglio delle ire della tifoseria per le ultime brutte stagioni, e Mickael Pietrus, buon difensore fermato anch’egli da problemi fisici.

Cosa dunque possono fare i Raptors per provare a riemergere dall’apparente oblio nel quale sono caduti?

Al momento il mercato dei free agents è ancora fermo e, prima di potersi muovere su questo campo durante la off-season, bisogna aspettare i primi di luglio, quando i team avranno deciso chi confermare e chi invece lasciar partire. Quello che di certo non manca ai canadesi sono giocatori da scambiare, Bargnani su tutti, e proprio su questo possono puntare per rinnovare il roster. Il nuovo, brillante general manager Masai Ujiri dovrà lavorare sulle necessità più urgenti: chiarezza sugli esterni, rinnovare il reparto lunghi, rendendolo finalmente solido, e rafforzare la panchina.

Andiamo con ordine. Il gioco principale dei Raptors si baserà sulla velocità e sul contropiede, Gay e DeRozan sono perfetti per questo sistema, ma serve anche costruire un’alternativa alla transizione e per attuarla c’è bisogno di un play duttile, capace non solo di lanciare i suoi in velocità, ma anche che sia abile a sfruttare gli scarichi derivanti dalle penetrazioni e ad eseguire il pick and roll coi lunghi. Uno come Mo Williams potrebbe essere l’ideale e Lawry sarebbe il giusto cambio se la società decidesse di esercitare la “team option” su di lui. Il ruolo di ala piccola è sovra coperto, dovranno scegliere chi tenere tra Kleiza e Landry Fields: il primo è più esperto e può sfruttare maggiormente i mismatch con avversari più piccoli di lui, mentre il secondo è un ottimo tiratore da 3 punti. E’ probabile che rimanga Fields, il quale, pur non avendo giocato una buona annata, è più giovane e, dovesse ripetere le prestazioni del suo periodo newyorkese, potrebbe rivelarsi un’ottima soluzione oltre l’arco, Kleiza di contro può far gola a molte squadre. Non sembra aver bisogno di aggiustamenti il ruolo di shooting guard, ma il giovane Terrence Ross, vista anche la giovane età del resto del team e le caratteristiche molti simili del suo pari ruolo DeRozan, potrebbe venir usato come pedina di scambio per arrivare ad un lungo o ad un playmaker e, al suo posto, si punterebbe ad acquisire un giocatore di esperienza che possa guidare la second unit in maniera più efficiente; soluzioni di questo genere potrebbero essere Stephen Jackson o Richard Hamilton, due veterani in grado di portare leadership nello spogliatoio e un bagaglio tecnico notevole.

Passando al frontcourt, dato per certo che decidano di puntare su Valanciunas, dovrebbero trovare un’ala forte con un buon tiro dalla media e che sotto il suo canestro sappia dare una mano al lituano nel prendere rimbalzi. David West, dovesse lasciare Indiana, sarebbe il colpo ideale, quello per cui spendere la maggior parte dei soldi, gli 11 milioni di ingaggio che verrebbero risparmiati cedendo Bargnani potrebbero essere utilizzati per lui e far fare un buon salto di qualità alla squadra. Il mercato delle ali forti è abbastanza ricco e qualora non dovessero arrivare a West potrebbero decidere di puntare sull’esperienza di Antwan Jamison o sulla fisicità di J.J. Hickson. L’ultimo acquisto potrebbe essere un centro esperto che faccia da chioccia a Valanciunas e che abbia un ingaggio modesto: Joel Pryzbilla o Chris Kaman. Il resto della squadra può essere completato confermando gli uomini già in organico.

A questo punto i Raptors si troverebbero ad avere un roster più che discreto, potendo contare sia su giocatori giovani che su altri più esperti, e troverebbero delle soluzioni offensive maggiori, avendo degli uomini in grado di sapersi muovere bene sul campo. Il contro è che molto verrebbe cambiato e dunque ci vorrà del tempo prima che tutti si inseriscano negli schemi e che la squadra inizi a girare nella maniera giusta, ma questo sarà il compito principale di coach Dwane Casey. E’ quasi sicuro che dovessero anche solo arrivare West, Williams e Kaman magari, la squadra sarebbe pronta per raggiungere i playoff ad Est e, forse, superare anche il primo turno.

La strada per risalire la montagna è lunga ed impervia, ma se i Raptors sapranno muoversi bene, potranno nuovamente graffiare e lasciare il loro segno nella lega e chissà che qualche nuova maglietta non arrivi dalle nostre parti, quando i dinosauro torneranno a ruggire in NBA.





lunedì 24 giugno 2013

TRIPLE VALUE – UNA FINALE DECISA COI PIEDI DIETRO L'ARCO


Un'entusiasmante gara 7 è stata la degna conclusione di una serie finale da brividi, con Miami e San Antonio a darsi battaglia per il titolo senza un attimo di tregua, in una lotta assolutamente incredibile, sicuramente la migliore e più combattuta degli ultimi anni. Tra i tanti fattori che hanno condizionato e deciso la contesa a favore degli uomini di South Florida, sicuramente il più decisivo e, a tratti, impressionante è stato il tiro da oltre l'arco. Le triple hanno dapprima sorriso alla squadra texana, che si è portata sul 3-2, a una sola vittoria dalla conquista dell'anello, salvo poi rivoltarsi incredibilmente contro di loro nella fantastica rimonta di Miami in gara 6 e nel successo finale di gara 7 all'American Airlines Arena.

In gara 1, a dir la verità, i 23 e 25 tiri tentati (con 7 e 8 mandati a bersaglio per una simile percentuale intorno al 30%) rispettivamente da San Antonio e Miami rivelano come l'idea iniziale non fosse un gioco concentrato sul tiro oltre l'arco, bensì prevedesse molte più penetrazioni a canestro con pochi scarichi sul perimetro. Vince la squadra del Texas e vince con una magia del suo playmaker Tony Parker, che, a pochi spiccioli dal termine, si inventa un canestro al limite dei 24 secondi chiudendo il match sul 92-88. Nonostante un non eccelso feeling da 3, due dei protagonisti delle partite successive già iniziano a farsi sentire con le loro bombe: Danny Green chiude con un buon 4/9 dalla lunga, mentre Ray Allen fa anche meglio con 3/4. He Got Game è un volto e un personaggio noto per il suo tiro tanto rapido quanto efficace e non è una new entry nemmeno nelle Finals NBA, dove detiene (o forse non più..) il record per triple segnate in una serie, a quota 22. Green invece è nuovo a palcoscenici così importanti, ma sembra non patire la pressione sulle spalle e gioca un ottimo basket al suo esordio nelle finali. Il meglio, però, deve ancora venire.

Nemmeno la seconda partita, stravinta dagli Heat con un'ottima prestazione di squadra e 5 uomini in doppia cifra, però, è indicativa per il dato che stiamo analizzando. Si tira anche meno da 3, con soli 19 tentativi per i vittoriosi uomini della Florida e uno in più per gli ospiti sconfitti. Si alzano però le percentuali per entrambe le squadre (10-19 e 10-20) anche grazie a una super prestazione dei due tiratori già citati, alla cui festa si aggiunge Mike Miller. Il giocatore di San Antonio chiude con un mostruoso 5/5, mentre i due uomini di Miami combinano un 6/9 letale. È un segnale di come il tiro da fuori stia diventando decisivo per le sorti della serie, anche se nessuno si sarebbe mai aspettato l'exploit di gara 3.

San Antonio, alla sua prima apparizione tra le mura amiche nella serie e con il fattore campo nelle sue mani con la contesa in parità 1-1, riscrive il libro dei record alla voce “triple segnate” in una singola partita delle Finals. Difficile commentare un 16/32 da 3 che ha tutta l'aria di un bombardamento sulle speranze degli Heat di riacciuffare subito il comando dei giochi. Idoli e protagonisti di serata sono i due che non ti aspetti, o forse non ti saresti aspettato alla vigilia delle finali: ancora una volta Danny Green con un 7/9 da fuori che lo porta ad un fantasmagorico totale di 16/23 nelle prime tre partite, un'impresa assoluta per un giocatore esploso per caso dalle rotazioni di coach Popovich, coadiuvato questa volta da un ancor più sorprendente Gary Neal, fino a 3 anni fa in Italia nella Benetton Treviso, che mette a segno 6 delle 10 bombe tentate, nella sua miglior prestazione in carriera. Kawhi Leonard e Tony Parker aggiungono un buon 3/4 da oltre l'arco e solo i 9 errori degli altri componenti texani con 0 canestri segnati rovinano una media che, altrimenti, sarebbe stata fantascientifica. Dall'altra parte del campo Miami è impotente di fronte alla raffica di canestri Spurs, con un dato, però, che salta all'occhio: Miller, unico a meritare la sufficienza tra i suoi, segna tutte e 5 le soluzioni tentate da 3 punti, per un totale di 15 punti in 22 minuti di gioco. Basterebbe da solo questo match per capire il ruolo fondamentale delle triple tra queste due squadre, ma le Finals non sono ancora finite.



Le due gare successive vedono una vittoria per parte, che porta San Antonio a un passo dal titolo, in vantaggio 3-2, anche se i restanti match si sarebbero giocati all'American Airlines Arena. C'è da dire che nemmeno la quarta e la quinta partita sono molto combattute, così come la seconda e la terza, in quanto a prevalere è una delle due formazioni sempre abbastanza nettamente. In gara 4 gli Spurs perdono di smalto e subiscono una dura sconfitta in casa propiziata dai Big Three, James, Wade e Bosh, che chiudono il match mettendo a referto 85 dei 109 punti segnati da Miami, mentre in gara 5 gli Speroni portano tutto il quintetto iniziale sopra i 15 punti per l'ultima vittoria stagionale all'AT&T Center che profuma di titolo. Dal punto di vista dei tiri da fuori c'è da sottolineare l'impresa titanica di Danny Green, che combina un 9/15 da oltre l'arco nelle due partite e supera Ray Allen (non più, non più..) come numero di triple segnate in una serie delle Finals e aggiornando i suoi dati, già eccellenti, a un 25/38 che sembra quasi irreale. Poco altro da segnalare in due scontri molto fisici, che si sono giocati nel pitturato più che dal perimetro e che hanno visto prevalere le squadre una volta a testa, quasi volessero a tutti i costi rinviare il giudizio definitivo all'ultima partita. C'era però ancora gara 6 da portare a casa per gli Heat per continuare a sperare nel loro terzo titolo.

Sotto di 5 a 22 secondi dal termine, i ragazzi della Florida, sembravano spacciati. La partita era scivolata nella mani di San Antonio grazie a un fenomenale Tim Duncan da 30 punti, un Leonard perfetto sui due lati del campo, in difesa su James e con energia in attacco (9/14 e 22 punti) e un'altra delle magie di Tony Parker, che aveva segnato 5 punti nell'arco di pochi istanti portando i texani a sentire già proprio quel titolo che manca nelle bacheche texane dal 2007. Ecco, però, che il tiro da fuori, l'arma che era stata nel corso di tutta la serie la più sfruttata ed efficace del team di Popovich, torna a fare la differenza, ma questa volta schierato dalla parte degli Heat. Ci prova James a riportare a -2 i suoi, ma non trova il bersaglio, gran rimbalzo di Miller e ancora LeBron da fuori: ciuff ! Fallo tattico su Leonard, due liberi, che possono riportare a 2 i possessi di distanza tra le due formazioni. Kawhi, però, compie forse l'unico vero errore della propria serie finale e fa 1/2. Miami è ancora in vita a -3 a 19 secondi e spiccioli dal termine. Ci vuole un'altra bomba però. Ci riprova il Prescelto, primo ferro, Bosh si lancia e afferra un rimbalzo che vale oro, palla a Ray Allen. He Got Game si porta fuori dal perimetro, con Parker in faccia e 7 secondi rimasti, si alza e spara. Bang! È il pareggio più insperato, voluto, creato da una squadra che non molla mai. Ai supplementari è dominio James, gli Heat piegano le resistenze degli Spurs e la partita si chiude con una beffa che sembra racchiudere in sé tutta la serie. Green, sul 103-100 e qualche attimo ancora da giocare, si alza da 3 per il pareggio che significherebbe secondo overtime. Lui, che prima di quella sera aveva sbagliato solo 13 tiri su 38, ma che in quella gara 6 era fermo a un misero 1/4, vede la sua ultima conclusione stoppata da Bosh. Game over esclama il commentatore NBA, game over sulle loro triple vincenti, game over forse sugli Spurs stessi. È 3-3 e si va a gara 7.

Anche nell'ultima e decisiva partita sono le triple a fare la differenza e, ancora una volta, dalla parte dei Miami Heat e dei loro tiratori. Non Ray Allen, non Mike Miller, ma LeBron James, che fino a qui era stato più determinante come apporto nel pitturato e dentro l'area, e Shane Battier che era rimasto fuori per motivi tecnici in buona parte delle partite di playoff e, soprattutto, in queste Finals. Il Prescelto, con gli occhi del mondo addosso e tutte le responsabilità dell'essere non solo il leader assoluto di una delle due squadre, ma anche il più forte giocatore di basket al mondo, inizialmente fatica a trovare il canestro. È impreciso con il tiro dalla media e non trova spazio in penetrazione. Cosa viene, però, in suo aiuto? Esatto, il tiro da 3, come sempre decisivo in questa serie. LeBron chiude con 5/10 da fuori e sbaglia le ultime 3 bombe tentate, il che rende l'idea di come questo sia stato un fattore per azionare il suo gioco devastante e il suo dominio assoluto in campo, dopo un difficile inizio partita. Fa anche meglio, per quanto riguarda il tiro pesante, Battier, che comincia infilando le prime 5 conclusioni della sua partita, tanto che alla sesta e al tanto agoniato (per i texani) primo errore dal perimetro il conduttore NBA esclama: “He's human!”. Gli Spurs, allontanati dalle bombe degli Heat, non riescono, dopo il terzo quarto, mai a riportarsi a contatto se non a 2 minuti dal termine, neanche a dirlo, con una tripla di Leonard che vale loro il -2 sul 90-88 Miami. Questa volta sono però un errore incredibile di Duncan da sotto, che avrebbe potuto valere la parità, e un jumper dalla media vincente del poi MVP delle Finals James a valere la definitiva vittoria 95-88 per la squadra di casa all'American Airlines Arena.

In una finale tanto avvincente sono stati, a mio parere, proprio i tiri dai 7,25 ad essere il fattore dominante per determinare le vittorie prima dell'una, gli Spurs, e poi dell'altra squadra, gli Heat. I protagonisti sono stati prima i tiratori texani, soprattutto Green e Neal, che si sono poi spenti alla distanza, e poi quelli della Florida, Allen e Battier su tutti, decisivi per la conquista del titolo. A fare il colpaccio, però, dopo l'MVP della stagione regolare, è stato ancora LeBron James, che si è confermato un assoluto fuoriclasse, inarrivabile per chiunque altro. Se ha conquistato per il secondo anno consecutivo ancora il titolo di miglior giocatore delle finali, però, questa volta, è anche grazie alle sue bombe in gara 7. 
God saves downtown shots, for the win!


giovedì 20 giugno 2013

THE ORIGINAL DREAM TEAM


Dicono sia stato il team più forte mai visto sul campo di uno qualsiasi degli sport di squadra, il più forte di sempre. Dicono che il basket non sia stato più lo stesso dopo Barcellona 1992, dopo che quei 12 ragazzi d’ oltreoceano sbarcarono sulle coste spagnole per stravolgere i parquet olimpici e non solo. Quante volte oggi giorno si sente la parola “dream team”? Tante, forse troppe. Nessuno toglie che si possa usare questa espressione anche al campetto sotto casa, nelle partite con gli amici, nel sostenere la propria squadra mentre vince e sembra essere invincibile, nel lodare il gioco eccelso di una qualsiasi compagine, ma forse in pochi sanno da dove nasce questa espressione, per chi la si usò la prima volta, e tutti devono sapere che non esisterà, mai più, un dream team come quello originale, come il primo. Sarebbe troppo facile parlare solamente per nomi, facendo un elenco dei magnifici 12 e citando le loro statistiche assurde prima, durante e dopo la competizione, senza considerare l'impatto che scatenarono sia nel basket che in tutto il mondo olimpico e sportivo in generale.
Si era già sentito nel mondo calcistico di una squadra che schierasse le proprie riserve perché si considerava troppo forte rispetto alla concorrenza. Era stato il caso della prima Inghilterra del calcio che, credendo che inventare uno sport significasse anche giocarlo meglio degli altri, aveva dapprima snobbato i Mondiali nelle prime due edizioni, non partecipandovi, e poi aveva deciso di non far partire i titolari, subendo una storica sconfitta nel suo esordio nella rassegna iridata, datato 1950, contro i modestissimi, almeno calcisticamente, Stati Uniti. Proprio questi ultimi, inventori e dominatori del basket mondiale, non potevano schierare, durante i Giochi Olimpici, i propri migliori giocatori, provenienti dai parquet NBA, perché la FIBA l'aveva imposto, probabilmente per evitare un'egemonia assoluta della nazionale a stelle e strisce. Nonostante l'assurdità del regolamento, che permetteva alle nazionali europee e sudamericane di schierare anche i loro players NBA e che lasciava agli Stati Uniti la rosa al completo per ogni altra manifestazione internazionale, mondiali compresi, il dominio assoluto c'era sempre e comunque stato anche a livello olimpico. Gli USA del basket, dal 1936 al 1988, erano usciti con l'oro al collo in tutte le edizioni dei Giochi, tranne nella contestatissima annata del 1972, in cui l'URSS aveva scippato gli statunitensi della vittoria all'ultimo secondo, relegandoli all'argento più contestato di sempre in una finale di basket a cinque cerchi. Fino al 1988 dicevamo, perché, in quell'anno, a Seoul, i sovietici batterono ancora gli acerrimi rivali, in una semifinale questa volta senza polemiche. E dopo la sconfitta al Mondiale argentino, ancora una volta in semifinale, contro la Jugoslavia poi campione, che fruttò solo il secondo bronzo in 2 anni, maturò la scelta di lasciare a casa gli universitari, che avevano sempre rappresentato gli Stati Uniti nelle competizioni internazionali (avevano deciso di schierarli anche ai Mondiali, nonostante fosse permesso l'uso di giocatori NBA), per portare i loro beniamini, i più forti atleti nel mondo del basket, alla ribalta di Barcellona 1992. Il Dream Team, guidato in panchina da Chuck Daly, coadiuvato da Lenny Wilkens, PJ Carlesimo e Mike Krzyzewski, era pronto a fare il suo ingresso trionfale nei Giochi.
Prima di entrare nel dettaglio dei protagonisti, fermiamoci ancora un attimo sugli effetti di questa convocazione. Innanzitutto questi giocatori erano degli idoli assoluti per tutti, tifosi, conoscitori di basket, allenatori ma anche per gli avversari stessi, che non li avevano mai affrontati e non sapevano se ci fosse più ammirazione, stima, paura, emozione o timore nel giocare contro di loro. Nessuna partita ebbe realmente storia, finirono tutte con divari amplissimi ma a nessuno sembrava importare. Quel Dream Team era imbattibile, tutti lo sapevano e nessuno si era mai potuto nemmeno illudere, nel suo sogno di gloria più alto, di poterli sconfiggere. Fu l'apoteosi del basket a stelle e strisce, il punto più alto della NBA ma, più in generale, dello sport USA. Ne trassero poi vantaggi lo spettacolo, assoluto in campo e sugli spalti, e il basket stesso, in quanto ottenne una visibilità mai avuta prima, diffondendosi sempre più tra i giovani appassionati e divenendo un fenomeno globale. Da allora, sarebbe stato seguito ed ammirato ovunque, nel ricordo di quella formazione epica, come mai più se ne sarebbero viste.
Come detto, ogni Dream Team mai citato, a partire dal 1992, deve il suo nome a questa nazionale e spesso è proprio questa formazione il metro di giudizio per vedere quanto una compagine sia forte, qualsiasi sia lo sport trattato. Ma chi la componeva? I 12 partecipanti erano divisi tra vecchie glorie, ormai al tramonto della propria fantastica carriera, massimi esponenti del basket di allora, che si contendevano i trionfi e gli anelli sui parquet di casa, e future stelle, già considerate però come campioni assoluti e protagonisti in patria. Capitani della formazione erano niente meno che Larry Bird e Magic Johnson, mentre gli altri 10 erano, in ordine alfabetico (non sarebbe umanamente possibile usare un altro ordine di importanza o di merito): Charles Barkley, Clyde Dexter, Patrick Ewing, Michael Jordan, Christian Laettner, Karl Malone, Chris Mullin, Scottie Pippen, David Robinson e John Stockton. 12 tra i più grandi di giocatori di sempre della palla a spicchi, insieme, nello stesso spogliatoio, sulla stessa panchina, nello stesso campo da gioco. C'è altro da aggiungere? Il Dream Team non avrebbe quasi bisogno di spiegazioni.

Scontato dire che lo score della dozzina da sogno fu 8-0, che l'oro più bello ma nel frattempo più prevedibile della storia dei Giochi per uno sport di squadra finì al collo degli Stati Uniti. Se volete possiamo aggiungere che il minimo distacco fu 32 punti in finale contro la Croazia, unica (quasi) vera rivale per i magnifici di coach Daly, mentre il massimo fu addirittura 68 all'esordio contro la malcapitata Angola, che gli USA lasciarono i loro avversari sempre sotto i 90 punti (massimo furono gli 85 della Croazia nell'ultimo match) e non ne segnarono mai meno di 100 (massimo furono i 127 contro Brasile e Lituania, quest'ultima, pensate, in semifinale), e che tutti loro, meno Christian Laettner, sono oggi parte della Hall of Hame, comprendente solo i più grandi giocatori di tutti i tempi. Il top scoarer fu Charles Barkley con 18 punti di media, a rimbalzo Karl Malone e Patrick Ewing presero entrambi 5.3 palloni di media mentre nelle assistenze, con 5.9 di media, il leader fu Scottie Pippen. Neanche a dirlo, però, il più completo, sia nelle statistiche che come gioco espresso, fu il più grande di tutti i tempi, Michael Jordan (14.9 – 2.4 – 4.8 a partita).

Non si può calcolare quanto abbiano significato questi giocatori per le loro franchigie, né in termini di punti-rimbalzi-assist o altre statistiche, né in termini di storia e successi, non si può calcolare quanto la NBA sia debitrice nei confronti di questi 12 fenomeni per credibilità, affermazione, business della Lega, si può solo cercare di trarre un bilancio di quanto costoro abbiano dato al gioco del basket e, più in generale, allo sport. Le Olimpiadi di Barcellona hanno ospitato tanti campioni, tante medaglie sono state vinte da atleti meritevoli e ci sarebbero ancora tante storie da raccontare. Ma la più bella, la più emozionante, la più unica nel suo genere riguarda quello che è stato e per sempre sarà il primo, grande, unico Dream Team.

mercoledì 19 giugno 2013

PURPLE JESUS






La NFL di oggi è una lega dominata dai passaggi, ed è innegabile. Per arrivare fino in fondo, per festeggiare a febbraio alzando il Lombardi Trophy, si ha bisogno di un ottimo quarterback e di buoni receivers. Lo dimostrano i Ravens di quest’anno, i Giants dell’anno prima e i Packers di quello prima ancora. Qualora una squadra sia intenzionata ad aprire un nuovo ciclo, probabilmente sceglierebbe subito un quarterback in grado di farvi vincere un gran numero di partite, ma, durante questa stagione, un uomo ha dimostrato di come non sia per forza colui che riceve lo snap il giocatore più indispensabile nella formazione di attacco. Stiamo parlando del running back dei Minnesota Vikings, MVP in carica: Adrian Peterson.

Dal 2007, anno del suo ingresso nella lega, l’ora ventottenne nativo di Palestine, in Texas, si è subito affermato come uno dei talenti più cristallini nel suo ruolo. Vince infatti sia il premio di Rookie of the Year sia quello di MVP del Pro Bowl, la partita-esibizione dei migliori giocatori della lega, ed inoltre scrive molti nuovi record di franchigia sia assoluti sia concernenti ai rookie. Le stagioni successive lo vedono sempre più attestarsi nell’elite della Lega. La stragrande maggioranza degli analisti lo considera il miglior running back della NFL, alla pari di leggende del passato come Jim Brown o Erick Dickerson; nel 2010 si classifica al terzo posto, dietro solo a Tom Brady e Payton Manning, nell’annuale classifica dei 100 migliori giocatori della lega, nel 2011 firma il contrattone di sette anni dal valore di 96 milioni di dollari coi Vikings, ma, l’anno dei record e della definitiva consacrazione doveva ancora arrivare. All’inizio della stagione 2012, la sua presenza in campo è fortemente in dubbio a causa della rottura del legamento crociato anteriore e del mediale collaterale occorsa il 26 dicembre 2011. A sorpresa però, Peterson, non solo è titolare dal week-end 1, ma è pure più forte di prima; il che è incredibile se pensiamo alla gravità dell’infortunio e a come il ginocchio sia sotto stress continuo per un giocatore del suo ruolo. Sforna una prestazione mostruosa dietro l’altra, superando varie volte le 100 yard corse, con un picco di 212 contro i Rams, ma è nella partita decisiva, quella che può consentire l’accesso ai playoff , che dà il meglio di sé, sfoderando tutto il suo repertorio.

L’ultima gara di stagione regolare è contro i quotati, nonché già sicuri dei playoff, Green Bay Packers. I Vikings necessitano disperatamente di una vittoria e Adrian risponde presente. La prima corsa notevole avviene con 6.56 minuti rimanenti da giocare nel primo quarto e porta ad un guadagno di 22 yard; nei due drive successivi, si procura rispettivamente 5 e 7 yard con due corse centrali, di cui la seconda si trasforma in un touchdown che segna 10-0 sul tabellone per i Vikings. Nel secondo quarto sono ancora lui e il kicker, Blair Walsh, a tenere a freno la rimonta dei Packers; una sua bellissima corsa di 18 yard è decisiva per il successivo touchdown di Jarius Wright su passaggio di Christian Ponder. All’inizio della ripresa, la classe del quarterback giallo-verde, Aaron Rodgers, riporta a contatto le due squadre, ma, a metà del quarto, Peterson sferra un uno-due degno di un pugile. Prima penetra la difesa con una corsa da 28 yard che si chiude a 7 yard dalla end zone, poi conclude il lavoro con una ricezione da 2 yard valevole per il 27-17 purple-gold. La partita però, è ben lungi dal terminare e quando il cronometro si avvicina allo zero, Adrian decide la sfida. I Packers serrano le linee, sapendo che il numero 28 di Minnesota sarà la prima opzione offensiva nell’ultimo drive; Ponder infatti, smette di lanciare affidandosi completamente al suo running back. E quando il cronometro segna 24 secondi rimanenti, Peterson scatta verso la sideline e corre 26 yard di importanza capitale per permette a Blair Walsh di chiudere la partita con un field goal all’utimo secondo che vale la qualificazione alla postseason.



 

Lo score finale recita 199 yard corse e 2 touchdown, Adrian diventa così il settimo giocatore della storia a superare le 2000 yard corse in una singola stagione e chiude al secondo posto di sempre con 2097, appena a 9 yard dal record assoluto di Erick Dickerson. E non solo, alla produzione in corse aggiunge anche 13 touchdown e la media strabiliante di 6 yard guadagnate a portata. Ai playoff però, pur dimostrando ancora il suo valore, correndo 99 yard, nel re-match contro i Packers, i suoi Vikings non riescono a superare il turno, complici l’assenza per infortunio di Ponder, la mancanza di opzioni adeguate sul gioco dei passaggi e una difesa poco compatta e con evidenti lacune. Il suo anno straordinario però non viene intaccato da questa eliminazione e anzi, alla fine, viene suggellato dalla meritata elezione ad “Offensive Player of the Year” e MVP della lega.

Ma, numeri e premi a parte, cosa rende così speciale Adrian Peterson?
Risposta facile, ma allo stesso tempo veritiera: un talento immenso. Alcuni running back infatti riescono prepotentemente a penetrare le difese avversarie, altri riescono ad accelerare dopo aver superato i loro marcatori, altri sono molto agili e sguscianti e altri ancora utilizzano benissimo i blocchi. Un buon running back può ritenersi fortunato se sa utilizzare bene una di queste abilità, Peterson invece, è semplicemente capace di fare tutto questo ed è in grado di farlo molto meglio degli altri. Approfondiamo un po’.

Il gioco dei Vikings si basa molto sulle sue corse, perciò, tante loro formazioni offensive prevedono più bloccanti del normale in grado di aprire dei varchi a Peterson. Varchi che effettivamente lui sfrutta bene, avendo un’ottima visione di gioco che gli permette di trovare la strada migliore, soprattutto quando va verso la linea di out. A questo aggiunge una notevole forza fisica, contro di lui i normali tackle di braccio sono inefficaci perché la spinta che esercita con la parte inferiore del corpo è superiore a quella che i difensori esercitano solo con le braccia. Inoltre ha un raro senso dell’equilibrio che gli permette di essere nella posizione migliore al momento del contatto con l’avversario, il quale non riesce a sfruttare l’energia cinetica del suo corpo andando a sbattere contro quello di Peterson che invece è ben piantato e stabile. Visione di gioco ottimale ed equilibrio perfetto gli permettono di oltrepassare le difese più coriacee. La maggior parte dei running back decide di correre spesso verso la sideline; quando invece decidono di andare nel mezzo lo fanno in maniera diversa da Adrian. Infatti essi corrono bassi, rannicchiandosi, cercando quasi di passare sotto alla montagna di corpi formata dagli uomini di linea, Peterson invece corre dritto, senza paura, sfruttando il suo poderoso primo passo riesce a superare la prima linea difensiva e correre verso la end zone. Una volta in campo aperto adopera tutta una serie di cut e spin move per liberarsi dei difensori e quando viene marcato dai defensivie back, agili e veloci, sa come utilizzare il braccio che non tiene la palla, tenendoli a distanza e non di rado mandandoli anche a terra. La costante è sempre l’equilibrio e la sua capacità di piantare il piede perno a terra per rendere più stabile possibile la sua posizione e in questo è senza dubbio il migliore della NFL. La caratteristica però che lo rende il migliore è il cambio di passo. Tutto ciò che abbiamo detto, unito a questo lo rendono devastante. Riesce a modificare l’andatura in una maniera efficacissima; ricevuta la palla dal quarterback punta dritto verso la sua zona, esegue dei cut e quindi riparte rapido, rallenta per uno spin e poi riparte veloce e dopo aver superato il difensore accelera in maniera impressionate e corre verso il touchdown. La capacità di eseguire i cambi di ritmo gli permettono di superare in velocità i difensori più grossi e di evitare i più veloci rallentando e per poi accelerare nuovamente. Queste sono le abilità che madre natura gli ha donato nel suo smisurato talento.

Se rimane in salute, Peterson è semplicemente inarrestabile. E ora che i Vikings hanno rafforzato la squadra, Purple Jesus è pronto a predicare il suo verbo a tutta la lega e portare ancora più in alto il suo nome e le sue gesta. 




domenica 16 giugno 2013

GIANTS OVER PATS – STORIA DI UN MIRACOLO SPORTIVO (Second Half)


Dicono che i miracoli avvengono una volta sola. Dicono che, solitamente, se una squadra vince in maniera incredibile, questo non si ripeterà più e quella formazione tornerà nell'ombra e, se mai, ricapiterà ancora nella medesima situazione, con la medesima possibilità di vincere, contro i medesimi avversari, si farà giustizia sportiva e i valori in campo si mostreranno per ciò che sono veramente. Ecco, parlatene con i New York Giants e con Eli Manning. Soprattutto, però, provate a chiedere a Tom Brady e ai New England Patriots che cosa ne pensano di questo e degli uomini della Grande Mela. Vi raccomando cautela, non vorrei vi usassero come pallone nei loro prossimi allenamenti.

Sfumata 5 anni prima, la stagione (quasi) perfetta di New England, restava un ricordo e un sogno perso all'ultima corsa, all'ultimo assalto, negli ultimi 60 minuti di gioco. I Patriots non si erano però persi d'animo e avevano collezionato una serie di qualificazioni alle partite che contano, anche se non erano mai arrivati a giocarsi il Super Bowl dopo la famosa notte di Phoenix. Ecco però che, nella regular season 2011, con un record di 16-3 sembravano essere tornati ai vertici e, di certo, lo erano in AFC, che avevano terminato quell'anno al posto #1, per la prima volta sempre dal 2007. La prima gara di post season portò a diversi record di franchigia per i Pats: 5 passaggi da touchdown di Brady prima dell'intervallo (6 a fine gara), 509 yards totali guadagnate, 45 punti e 35 di margine dai Broncos, letteralmente demoliti dagli avversari. Contro i Ravens, però, non ebbero allo stesso modo vita facile, tanto che la gara restò in bilico fino all'ultimo, con Sterling Moore, safety di NE che forzò, con la sua difesa impeccabile Baltimore ad un field goal da 32 yards per andare all’overtime. Billy Cundliff, però, lo sbagliò, e con lo score finale di 23-20 i Patriots si riguadagnarono la partita decisiva per il titolo. Nonostante le difficoltà contro la numero 2 di conference, la squadra sembrava essere tornata ai fasti di 5 anni prima, dimostrando una certa superiorità sulle avversarie incontrate. Era tempo di un nuovo titolo, che mancava dal 2003. Dall'altra parte, però, non potevano mancare i New York Giants, pronti, nuovamente, a rovinare la festa a Brady e compagni.

Esattamente come 5 anni prima, la stagione regolare dei Giganti non fu eccezionale, né esaltante. Qualificatisi alla posizione numero #4 in NFC, si erano guadagnati il wild card match, questa volta giocato tra le mura amiche, contro i Falcons di Matt Ryan. Nonostante l'iniziale vantaggio di due punti di Atlanta, i newyorkesi schiacciarono le pretese degli avversari quasi doppiando le loro yards guadagnate e limitando a sole 4 le conversioni di terzo e quarto down su 17 tentate. La fiducia acquisita non bastava, però, in quanto ora bisognava andare a Green Bay a sfidare la prima forza della stagione NFC e le premesse erano tutte a sfavore dei Giants. Per il secondo anno consecutivo e per la quarta volta negli ultimi 5 anni, con una moda cominciata proprio dalla squadra vincitrice del Super Bowl XLII nel 2007, però la prima forza di conference viene eliminata nel divisional round. I Packers finiscono al tappeto di fronte a uno straripante Manning da 330 yards (record personale in postseason) e 3 lanci da touchdown e, per il sesto anno di fila, i vincitori del titolo della stagione precedente escono alla prima di playoff. Gli ultimi avversari dei Giganti sulla strada verso la finale sono i 49ers e qui la storia sembra ripetersi, quasi a far presagire un altro miracolo sportivo. Il punteggio non differisce molto da quello dell'NFC Championship Game di 5 anni prima, 20-17 (fu 23-20 contro i Packers), ma la gara si decide sempre in overtime e sempre grazie ad un field goal decisivo di Lawrence Tynes. Con queste premesse i Giants corrono in finale, pronti ad affrontare nuovamente i Patriots per estirparli di un altro titolo e portare Eli Manning e i suoi compagni dritti nella storia della NFL.

Al Lucas Oil Stadium di Indianapolis, i 12 punti di margine del 2007 prima si erano ridotti a 2.5, ma gli uomini del New England restavano favoriti sugli avversari e, spinti da una grandissima voglia di rivincita, erano pronti a dimostrare che i miracoli, come si dice solitamente, accadono una volta sola. I newyorkesi però, esattamente come nella finale precedente, non si sentivano il capro espiatorio della furia di Brady e compagni e con una fiducia certamente maggiore che nel 2007 si apprestavano a fare doppietta.

Terzo team dopo i Rams del 1979 e i Cardinals del 2008 a raggiungere la finale nonostante sole 9 vittorie in regular season, i Giganti si portarono sul 9-0 già nel primo periodo, dopo un errore di Tom Brady che, mentre stava lanciando, aveva superato la metà campo senza ricevitori nonostante fosse nella sua end zone, ed un touchdown da 78 yards in 9 azioni chiuso dal passaggio di Manning per Victor Cruz. Fu allora però che Brady sfoderò un saggio della sua classe, con 8 completi consecutivi, guidando i suoi, dopo un field goal di Gostkowski dalle 29 yards, fino al touchdown del vantaggio, completato da Woodhead per il 10-9 Patriots all'intervallo lungo.

Con un altro drive degno della sua fama, il quarterback di New England portò Aaron Hernandez a festeggiare in end zone per il 17-9 che sembrava incanalare la sfida sui binari dei Patriots che, con un vantaggio superiore al singolo touchdown e una rinfrancata vena realizzativa, si potevano permettere più di un desiderio di stringere le mani sul Lombardy Trophy. New York rispose subito però con un field goal di Tynes dalle 20 yards che riportò i suoi a contatto. Dopo un paio di azioni da nulla di fatto, con 4.06 sul cronometro dalla fine del match, la prima delle due azioni cruciali per il risultato finale fu un clamoroso incompleto di Wes Welker sulle 44 yards dei Giants. Un lancio perfetto di Brady per il suo ricevitore, scattato precisamente e pronto a convertirlo in un primo down che avrebbe praticamente chiuso i conti. Incredibilmente però Welker, ricadendo a terra, si lasciò sfuggire il pallone e i Patriots chiusero quindi un drive decisivo senza punti a referto. Il miracolo però, con 3.46 rimasti e partendo dalle proprie 12 yards, sempre sul punteggio di 12-17 per gli avversari, doveva ancora compiersi. Eli Manning era pronto per essere nuovamente l'uomo della Provvidenza newyorkese.



Un lancio incredibile del quarterback, marcato stretto dai difensori avversari e pericolosamente vicino alla propria end zone, portò Mario Manningham alla ricezione più importante della sua carriera, una meravigliosa presa sul bordo sinistro del campo a contatto con la linea dell'out. 38 yards di guadagno, Giants balzati inverosimilmente a metà campo, con un'azione degna dell'”helmet catch” di 5 anni prima, e pronti a portarsi verso la end zone avversaria e verso un'altra vittoria di dimensioni epiche. Dopo un paio di prese ancora del receiver eroe di giornata, il running back Amhad Bradshaw, con 1.03 sul cronometro, chiudeva un drive eccezionale e storico con una stranissima corsa verso la end zone, quasi a voler guadagnare qualche secondo fermandosi sulla linea finale e guardando gli avversari increduli e distrutti da una nuova rimonta completata dai Giganti nei loro confronti a pochi attimi dal termine. Con 57 secondi rimasti, NY fallì l'opportunità della conversione da 2 punti e la palla passò a Brady per un disperato tentativo di andare dall'altra parte del campo. Il cronometro si azzera sull'ultimo lancio utile del quaterback di New England verso la end zone, dove Aaron Hernandez non riesce nella presa, ben braccato dai difensori dei Giants. É finita, è finita. E ancora una volta i Patriots si devono inchinare e lasciare il Lombardi Trophy a New York.




Eli Manning, dunque, aveva lanciato ancora una volta la sua squadra verso il titolo e si era guadagnato il secondo titolo di MVP del Super Bowl che, per la seconda volta, finiva nelle mani dei Giants, ancora una volta miracolati dopo un inizio di stagione difficile e dei playoff assolutamente incredibili. Manning, l'uomo degli ultimi minuti, l'uomo dei lanci impossibili, l'uomo della Provvidenza, era ancora una volta sul tetto dell'olimpo e guardava tutti dall'alto al basso. 

venerdì 14 giugno 2013

L'ANGOLO TECNICO: NFL BASICS 2






Eccoci al secondo appuntamento con il mio angolo tecnico!

L’ultima volta ci eravamo lasciati con le prime basi del gioco, oggi voglio approfondire maggiormente alcune dinamiche del football americano e, soprattutto, portarvi a conoscenza di alcuni termini che ritroverete spesso nei nostri articoli. Per fare questo vi propongo un piccolo glossario, cosicché possiate orientarvi più facilmente nei concetti.

·        Backward pass: è un passaggio all’indietro, tipico del rugby, usato molto raramente nelle normali azioni di gioco, è utilizzato nella maggior parte dei casi nelle giocate che prevedono una finta, dove ad esempio, il running back corre verso la propria linea offensiva e poi ripassa la palla al quarterback che può lanciare. 

·        Blitz: è una giocata difensiva, chiamata dai linebacker o, più raramente, dai defensive back, che prevede di penetrare nella linea avversaria per cercare di placcare il quarterback e può essere eseguita da uno o più giocatori. E’ molto rischiosa perché, nel caso la linea resista o il quarterback riesca a lanciare, la propria difesa rimane molto scoperta. Gli schemi di “pass rushing” si basano proprio su questa tattica molto aggressiva.

·        Drive: è la serie di azioni consecutive condotte dalla squadra in attacco. Possiamo anche definirlo come la somma di tutti i down che la squadra guadagna. 

·        Fumble: è l’errore commesso, da un giocatore avente possesso del pallone, che comporta la perdita del possesso di palla a favore della squadra avversaria. Può verificarsi, ad esempio, per uno snap mal eseguito dal centro, per una disattenzione del receiver qualora non abbia ben saldo il pallone nelle mani o se lo lasci sfuggire o perché un running back durante un contatto ha perso la palla; in tutti questi casi, se la palla viene recuperata da un avversario è un fumble. Esistono anche i “forced fumble”, che avvengono quando un giocatore difensivo con la sua giocata fa perdere il controllo della palla all’avversario e questa venga poi recuperata da un suo compagno.  

·        Goaltending: è un tentativo di impedire o, più raramente, favorire la segnatura di un field goal. 

·        Handoff: è il passaggio alla mano che il quarterback effettua per il suo running back. 

·        Incompleto: è il termine che si usa per indicare un passaggio non andato a buon fine o perché la palla ha toccato terra prima che il ricevitore potesse prenderla, o perché è uscito dal campo o perché il ricevitore stesso non è riuscito a guadagnare il possesso dell’ovale, lasciandoselo scivolare dalle mani.

·        Intentional grounding: è l’azione nella quale il quarterback, per evitare un sack e quindi una perdita di yard, lancia volontariamente un passaggio non ricevibile.  

·        Intercetto: è un’azione difensiva nella quale un difensore cattura il lancio avversario e regala il possesso alla propria squadra. Un intercetto subito è una grave pecca per il quarterback, in quanto rischia di compromettere il risultato finale, soprattutto se lo subisce nella propria metà campo o se questo viene ritornato in un touchdown. 

·        Onside kick: è un tipo particolare di kick off che viene calciato non alto e lungo, ma corto e laterale, così da cercare di riconquistare il possesso della palla immediatamente. E’ possibile vederlo quando una squadra in svantaggio sta cercando disperatamente di recuperare, perché nel caso non andasse a buon fine, la squadra avversaria ripartirebbe ad una distanza davvero prossima alla end zone. 

·        Passer rating: è il coefficiente numerico con la quale si misura la prestazione del quarterback. Si calcola tramite una complessa operazione matematica che tiene conto di passaggi completati, yard guadagnate, passaggi da touchdown e intercetti. Il risultato totale può variare tra 0 e 158,3. Per fare un esempio concreto, il più alto passer rating per una stagione è stato ottenuto da Peyton Manning con 121,1. 

·        Sack: è l’azione nella quale il quarterback viene placcato dietro la linea di scrimmage prima che possa effettuare un lancio. Deve essere fondamentale, perché il sack si compia, che il quarterback mostri chiaramente l’intenzione di lanciare, altrimenti si tratta di un normale tackle e non comporterà una perdita di 5 yard. Per lui e la sua linea d’attacco subire un sack è una cosa abbastanza grave, per il difensore che lo compie invece è un motivo di vanto che ne fa apprezzare il valore ed è un dato rilevante per le statistiche. 

·        Safety: è un’azione nella quale la squadra in possesso della palla non riesce ad uscire dalla sua end zone. L’azione da due punti alla squadra che è in difesa e ci sono vari modi per metterla a segno: placcare un giocatore avversario in possesso di palla nella end zone, costringere un giocatore ad uscire lateralmente dalla end zone o bloccare un punt o un kick off facendo uscire il pallone dalla end zone. Per ultimo esiste anche il caso della “safety intenzionale”, quando una, squadra in vantaggio di almeno tre punti, a pochi minuti dal termine e con un quarto down da convertire a pochi metri dalla sua end zone, decide di perdere volontariamente 2 punti ed evitare di subire i 6 punti di un eventuale touchdown avversario. La logica che sta dietro a questa tattica, è che una safety fa mantenere il possesso alla squadra che la subisce e le permette di calciare un punt dalle proprie 20 yard, cercando quindi di allontanare il più possibile l’avversario e fermarlo nel poco tempo rimanente. Questo calcio prende il nome di “free kick” ed un esempio recente di safety volontaria è fornito dall’ultima azione del Super Bowl XLVII, dove i Ravens hanno scelto proprio questa tattica.

·        Scramble: è una giocata offensiva nella quale il quarterback, se evidentemente sotto pressione, decide di correre lateralmente o indietro per evitare il sack. E’ bene precisare che non è una giocata concordata, ma una scelta istantanea del quarterback.

·        Snap: è il gesto che da il via all’azione d’ attacco e viene eseguito dall’uomo centrale dei cinque di linea, il centro appunto, che consegna la palla al quarterback, il quale poi decide cosa fare.

·        Stunt: è un movimento effettuato dai defensive lineman che consiste nel cambiarsi di posizione per confondere le idee alla linea offensiva e cambiare il gioco dei blocchi. Uno stunt, rendendo più vulnerabile la difesa contro le corse, viene eseguito solo se ci sono azioni di passaggio e, più comunemente, per portare più pressione al quarterback con un blitz. 

·        Tackle: Sono i tipici placcaggi per fermare o atterrare un avversario. Possono essere eseguiti singolarmente o da più giocatori e perciò sono divisi in “solo” e “assist”. 

·        Tackle for loss: La differenza col normale tackle consiste nel fatto che questo comporta una perdita di yard per il giocatore che viene placcato. Infatti, nel caso un running back dovesse essere placcato dietro la linea di scrimmage, la sua squadra perde delle yard ed è costretta a ripartire più indietro del down precedente.

Con questo elenco abbiamo terminato di costruire, grosso modo, le fondamenta della nostra conoscenza sul football americano. Imparando questi termini riuscirete a capire più facilmente gli articoli che abbiamo trattato e tratteremo sulla NFL. E’ altresì vero che mancano ancora alcune situazioni che  ho scelto di tralasciare per ora e, magari, affronteremo più avanti. Per il momento studiate questo e, se posso darvi un consiglio, andate a vedere dei video riguardanti queste azioni così da facilitarvi l’apprendimento. Mi raccomando, alla prossima lezione sui ruoli vi voglio belli pronti, altrimenti rischiate un sack e una considerevole perdita di yard!