Dicono sia stato il team più forte
mai visto sul campo di uno qualsiasi degli sport di squadra, il più
forte di sempre. Dicono che il basket non sia stato più lo stesso
dopo Barcellona 1992, dopo che quei 12 ragazzi d’ oltreoceano
sbarcarono sulle coste spagnole per stravolgere i parquet olimpici e
non solo. Quante volte oggi giorno si sente la parola “dream team”?
Tante, forse troppe. Nessuno toglie che si possa usare questa
espressione anche al campetto sotto casa, nelle partite con gli
amici, nel sostenere la propria squadra mentre vince e sembra essere
invincibile, nel lodare il gioco
eccelso di una qualsiasi compagine, ma forse in pochi sanno da dove
nasce questa espressione, per chi la si usò la prima volta, e tutti
devono sapere che non esisterà, mai più, un dream team come quello
originale, come il primo. Sarebbe
troppo facile parlare solamente per nomi, facendo un elenco dei
magnifici 12 e citando le loro statistiche assurde prima, durante e
dopo la competizione, senza considerare l'impatto che scatenarono sia
nel basket che in tutto il mondo olimpico e sportivo in generale.
Si era già sentito nel mondo
calcistico di una squadra che schierasse le proprie riserve perché
si considerava troppo forte rispetto alla concorrenza. Era stato il
caso della prima Inghilterra del calcio che, credendo che inventare
uno sport significasse anche giocarlo meglio degli altri, aveva
dapprima snobbato i Mondiali nelle prime due edizioni, non
partecipandovi, e poi aveva deciso di non far partire i titolari,
subendo una storica sconfitta nel suo esordio nella rassegna iridata,
datato 1950, contro i modestissimi, almeno calcisticamente, Stati
Uniti. Proprio questi ultimi, inventori e dominatori del basket
mondiale, non potevano schierare, durante i Giochi Olimpici, i propri
migliori giocatori, provenienti dai parquet NBA, perché la FIBA
l'aveva imposto, probabilmente per evitare un'egemonia assoluta della
nazionale a stelle e strisce. Nonostante l'assurdità del
regolamento, che permetteva alle nazionali europee e sudamericane di
schierare anche i loro players NBA e che lasciava agli Stati Uniti la
rosa al completo per ogni altra manifestazione internazionale,
mondiali compresi, il dominio assoluto c'era sempre e comunque stato
anche a livello olimpico. Gli USA del basket, dal 1936 al 1988, erano
usciti con l'oro al collo in tutte le edizioni dei Giochi, tranne
nella contestatissima annata del 1972, in cui l'URSS aveva scippato
gli statunitensi della vittoria all'ultimo secondo, relegandoli
all'argento più contestato di sempre in una finale di basket a
cinque cerchi.
Fino al 1988 dicevamo,
perché, in quell'anno, a Seoul, i sovietici batterono ancora gli
acerrimi rivali, in una semifinale questa volta senza polemiche. E
dopo la sconfitta al Mondiale argentino, ancora una volta in
semifinale, contro la Jugoslavia poi campione, che fruttò solo il
secondo bronzo in 2 anni, maturò la scelta di lasciare a casa gli
universitari, che avevano sempre rappresentato gli Stati Uniti nelle
competizioni internazionali (avevano deciso di schierarli anche ai
Mondiali, nonostante fosse permesso l'uso di giocatori NBA), per
portare i loro beniamini, i più forti atleti nel mondo del basket,
alla ribalta di Barcellona 1992. Il Dream Team, guidato in panchina
da Chuck Daly, coadiuvato da Lenny Wilkens, PJ Carlesimo e Mike
Krzyzewski, era pronto a fare il suo ingresso trionfale nei Giochi.
Prima di entrare nel dettaglio dei
protagonisti, fermiamoci ancora un attimo sugli effetti di questa
convocazione. Innanzitutto questi giocatori erano degli idoli
assoluti per tutti, tifosi, conoscitori di basket, allenatori ma
anche per gli avversari stessi, che non li avevano mai affrontati e
non sapevano se ci fosse più ammirazione, stima, paura, emozione o
timore nel giocare contro di loro. Nessuna partita ebbe realmente
storia, finirono tutte con divari amplissimi ma a nessuno sembrava
importare. Quel Dream Team era imbattibile, tutti lo sapevano e
nessuno si era mai potuto nemmeno illudere, nel suo sogno di gloria
più alto, di poterli sconfiggere. Fu l'apoteosi del basket a stelle
e strisce, il punto più alto della NBA ma, più in generale, dello
sport USA. Ne trassero poi vantaggi lo spettacolo, assoluto in campo
e sugli spalti, e il basket stesso, in quanto ottenne una visibilità
mai avuta prima, diffondendosi sempre più tra i giovani appassionati
e divenendo un fenomeno globale. Da allora, sarebbe stato seguito ed
ammirato ovunque, nel ricordo di quella formazione epica, come mai
più se ne sarebbero viste.
Come detto, ogni Dream Team mai
citato, a partire dal 1992, deve il suo nome a questa nazionale e
spesso è proprio questa formazione il metro di giudizio per vedere
quanto una compagine sia forte, qualsiasi sia lo sport trattato. Ma
chi la componeva? I 12 partecipanti erano divisi tra vecchie glorie,
ormai al tramonto della propria fantastica carriera, massimi
esponenti del basket di allora, che si contendevano i trionfi e gli
anelli sui parquet di casa, e future stelle, già considerate però
come campioni assoluti e protagonisti in patria. Capitani della
formazione erano niente meno che Larry Bird e Magic Johnson, mentre
gli altri 10 erano, in ordine alfabetico (non sarebbe umanamente
possibile usare un altro ordine di importanza o di merito): Charles
Barkley, Clyde Dexter, Patrick Ewing, Michael Jordan, Christian
Laettner, Karl Malone, Chris Mullin, Scottie Pippen, David Robinson e
John Stockton. 12 tra i più grandi di giocatori di sempre della
palla a spicchi, insieme, nello stesso spogliatoio, sulla stessa
panchina, nello stesso campo da gioco. C'è altro da aggiungere? Il
Dream Team non avrebbe quasi bisogno di spiegazioni.
Scontato dire che lo score della
dozzina da sogno fu 8-0, che l'oro più bello ma nel frattempo più
prevedibile della storia dei Giochi per uno sport di squadra finì al
collo degli Stati Uniti. Se volete possiamo aggiungere che il minimo
distacco fu 32 punti in finale contro la Croazia, unica (quasi) vera
rivale per i magnifici di coach Daly, mentre il massimo fu
addirittura 68 all'esordio contro la malcapitata Angola, che gli USA
lasciarono i loro avversari sempre sotto i 90 punti (massimo furono
gli 85 della Croazia nell'ultimo match) e non ne segnarono mai meno
di 100 (massimo furono i 127 contro Brasile e Lituania, quest'ultima,
pensate, in semifinale), e che tutti loro, meno Christian Laettner,
sono oggi parte della Hall of Hame, comprendente solo i più grandi
giocatori di tutti i tempi. Il top scoarer fu Charles Barkley con 18
punti di media, a rimbalzo Karl Malone e Patrick Ewing presero
entrambi 5.3 palloni di media mentre nelle assistenze, con 5.9 di
media, il leader fu Scottie Pippen. Neanche a dirlo, però, il più
completo, sia nelle statistiche che come gioco espresso, fu il più
grande di tutti i tempi, Michael Jordan (14.9 – 2.4 – 4.8 a
partita).
Non si può calcolare quanto abbiano
significato questi giocatori per le loro franchigie, né in termini
di punti-rimbalzi-assist o altre statistiche, né in termini di
storia e successi, non si può calcolare quanto la NBA sia debitrice
nei confronti di questi 12 fenomeni per credibilità, affermazione,
business della Lega, si può solo cercare di trarre un bilancio di
quanto costoro abbiano dato al gioco del basket e, più in generale,
allo sport. Le Olimpiadi di Barcellona hanno ospitato tanti campioni,
tante medaglie sono state vinte da atleti meritevoli e ci sarebbero
ancora tante storie da raccontare. Ma la più bella, la più
emozionante, la più unica nel suo genere riguarda quello che è
stato e per sempre sarà il primo, grande, unico Dream Team.
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