giovedì 20 giugno 2013

THE ORIGINAL DREAM TEAM


Dicono sia stato il team più forte mai visto sul campo di uno qualsiasi degli sport di squadra, il più forte di sempre. Dicono che il basket non sia stato più lo stesso dopo Barcellona 1992, dopo che quei 12 ragazzi d’ oltreoceano sbarcarono sulle coste spagnole per stravolgere i parquet olimpici e non solo. Quante volte oggi giorno si sente la parola “dream team”? Tante, forse troppe. Nessuno toglie che si possa usare questa espressione anche al campetto sotto casa, nelle partite con gli amici, nel sostenere la propria squadra mentre vince e sembra essere invincibile, nel lodare il gioco eccelso di una qualsiasi compagine, ma forse in pochi sanno da dove nasce questa espressione, per chi la si usò la prima volta, e tutti devono sapere che non esisterà, mai più, un dream team come quello originale, come il primo. Sarebbe troppo facile parlare solamente per nomi, facendo un elenco dei magnifici 12 e citando le loro statistiche assurde prima, durante e dopo la competizione, senza considerare l'impatto che scatenarono sia nel basket che in tutto il mondo olimpico e sportivo in generale.
Si era già sentito nel mondo calcistico di una squadra che schierasse le proprie riserve perché si considerava troppo forte rispetto alla concorrenza. Era stato il caso della prima Inghilterra del calcio che, credendo che inventare uno sport significasse anche giocarlo meglio degli altri, aveva dapprima snobbato i Mondiali nelle prime due edizioni, non partecipandovi, e poi aveva deciso di non far partire i titolari, subendo una storica sconfitta nel suo esordio nella rassegna iridata, datato 1950, contro i modestissimi, almeno calcisticamente, Stati Uniti. Proprio questi ultimi, inventori e dominatori del basket mondiale, non potevano schierare, durante i Giochi Olimpici, i propri migliori giocatori, provenienti dai parquet NBA, perché la FIBA l'aveva imposto, probabilmente per evitare un'egemonia assoluta della nazionale a stelle e strisce. Nonostante l'assurdità del regolamento, che permetteva alle nazionali europee e sudamericane di schierare anche i loro players NBA e che lasciava agli Stati Uniti la rosa al completo per ogni altra manifestazione internazionale, mondiali compresi, il dominio assoluto c'era sempre e comunque stato anche a livello olimpico. Gli USA del basket, dal 1936 al 1988, erano usciti con l'oro al collo in tutte le edizioni dei Giochi, tranne nella contestatissima annata del 1972, in cui l'URSS aveva scippato gli statunitensi della vittoria all'ultimo secondo, relegandoli all'argento più contestato di sempre in una finale di basket a cinque cerchi. Fino al 1988 dicevamo, perché, in quell'anno, a Seoul, i sovietici batterono ancora gli acerrimi rivali, in una semifinale questa volta senza polemiche. E dopo la sconfitta al Mondiale argentino, ancora una volta in semifinale, contro la Jugoslavia poi campione, che fruttò solo il secondo bronzo in 2 anni, maturò la scelta di lasciare a casa gli universitari, che avevano sempre rappresentato gli Stati Uniti nelle competizioni internazionali (avevano deciso di schierarli anche ai Mondiali, nonostante fosse permesso l'uso di giocatori NBA), per portare i loro beniamini, i più forti atleti nel mondo del basket, alla ribalta di Barcellona 1992. Il Dream Team, guidato in panchina da Chuck Daly, coadiuvato da Lenny Wilkens, PJ Carlesimo e Mike Krzyzewski, era pronto a fare il suo ingresso trionfale nei Giochi.
Prima di entrare nel dettaglio dei protagonisti, fermiamoci ancora un attimo sugli effetti di questa convocazione. Innanzitutto questi giocatori erano degli idoli assoluti per tutti, tifosi, conoscitori di basket, allenatori ma anche per gli avversari stessi, che non li avevano mai affrontati e non sapevano se ci fosse più ammirazione, stima, paura, emozione o timore nel giocare contro di loro. Nessuna partita ebbe realmente storia, finirono tutte con divari amplissimi ma a nessuno sembrava importare. Quel Dream Team era imbattibile, tutti lo sapevano e nessuno si era mai potuto nemmeno illudere, nel suo sogno di gloria più alto, di poterli sconfiggere. Fu l'apoteosi del basket a stelle e strisce, il punto più alto della NBA ma, più in generale, dello sport USA. Ne trassero poi vantaggi lo spettacolo, assoluto in campo e sugli spalti, e il basket stesso, in quanto ottenne una visibilità mai avuta prima, diffondendosi sempre più tra i giovani appassionati e divenendo un fenomeno globale. Da allora, sarebbe stato seguito ed ammirato ovunque, nel ricordo di quella formazione epica, come mai più se ne sarebbero viste.
Come detto, ogni Dream Team mai citato, a partire dal 1992, deve il suo nome a questa nazionale e spesso è proprio questa formazione il metro di giudizio per vedere quanto una compagine sia forte, qualsiasi sia lo sport trattato. Ma chi la componeva? I 12 partecipanti erano divisi tra vecchie glorie, ormai al tramonto della propria fantastica carriera, massimi esponenti del basket di allora, che si contendevano i trionfi e gli anelli sui parquet di casa, e future stelle, già considerate però come campioni assoluti e protagonisti in patria. Capitani della formazione erano niente meno che Larry Bird e Magic Johnson, mentre gli altri 10 erano, in ordine alfabetico (non sarebbe umanamente possibile usare un altro ordine di importanza o di merito): Charles Barkley, Clyde Dexter, Patrick Ewing, Michael Jordan, Christian Laettner, Karl Malone, Chris Mullin, Scottie Pippen, David Robinson e John Stockton. 12 tra i più grandi di giocatori di sempre della palla a spicchi, insieme, nello stesso spogliatoio, sulla stessa panchina, nello stesso campo da gioco. C'è altro da aggiungere? Il Dream Team non avrebbe quasi bisogno di spiegazioni.

Scontato dire che lo score della dozzina da sogno fu 8-0, che l'oro più bello ma nel frattempo più prevedibile della storia dei Giochi per uno sport di squadra finì al collo degli Stati Uniti. Se volete possiamo aggiungere che il minimo distacco fu 32 punti in finale contro la Croazia, unica (quasi) vera rivale per i magnifici di coach Daly, mentre il massimo fu addirittura 68 all'esordio contro la malcapitata Angola, che gli USA lasciarono i loro avversari sempre sotto i 90 punti (massimo furono gli 85 della Croazia nell'ultimo match) e non ne segnarono mai meno di 100 (massimo furono i 127 contro Brasile e Lituania, quest'ultima, pensate, in semifinale), e che tutti loro, meno Christian Laettner, sono oggi parte della Hall of Hame, comprendente solo i più grandi giocatori di tutti i tempi. Il top scoarer fu Charles Barkley con 18 punti di media, a rimbalzo Karl Malone e Patrick Ewing presero entrambi 5.3 palloni di media mentre nelle assistenze, con 5.9 di media, il leader fu Scottie Pippen. Neanche a dirlo, però, il più completo, sia nelle statistiche che come gioco espresso, fu il più grande di tutti i tempi, Michael Jordan (14.9 – 2.4 – 4.8 a partita).

Non si può calcolare quanto abbiano significato questi giocatori per le loro franchigie, né in termini di punti-rimbalzi-assist o altre statistiche, né in termini di storia e successi, non si può calcolare quanto la NBA sia debitrice nei confronti di questi 12 fenomeni per credibilità, affermazione, business della Lega, si può solo cercare di trarre un bilancio di quanto costoro abbiano dato al gioco del basket e, più in generale, allo sport. Le Olimpiadi di Barcellona hanno ospitato tanti campioni, tante medaglie sono state vinte da atleti meritevoli e ci sarebbero ancora tante storie da raccontare. Ma la più bella, la più emozionante, la più unica nel suo genere riguarda quello che è stato e per sempre sarà il primo, grande, unico Dream Team.

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