Strana carriera quella di Philip
Rivers.
Torniamo indietro al draft 2004. I San
Diego Chargers vengono da una stagione con 4 vittorie e 12 sconfitte e hanno la
prima chiamata assoluta. Il miglior prospetto è un ragazzo che porta sulle
spalle un nome importante, Eli Manning, ma ha già fatto sapere di non voler
giocare in California. I Chargers sono costretti a modificare i loro piani e
decidono di scambiare la tanto agognata prima scelta con i New York Giants. In
compenso ottengono la quarta chiamata (ad onor di cronaca ottennero anche la
dodicesima e la sessantacinquesima scelta, che furono usate per selezionare due
futuri Pro Bowler quali Shawne Merriman e Nate Kaeding) e la promessa di
selezionare il secondo miglior quarterback del lotto: Philip Rivers, dalla
North Carolina State University.
L’inizio di carriera NFL per Rivers non
è certo dei più esaltanti. Si trova ad essere il terzo quarterback in depth
chart, dietro a Drew Brees e a Doug Floutie, e, per i primi due anni, vede il
campo col binocolo e solo a fine stagione. L’anno della svolta è il 2006. Brees
è free-agent e i New Orleans Saints lo ricoprono di soldi, Rivers vede
finalmente aperte le porte del terreno di gioco. Dopo le iniziali critiche
rivoltegli da chi non lo vedeva pronto a guidare una squadra che, in quegli
anni, era un contender per il Super Bowl, il nativo di Decatur stupisce tutti
con giocate di grande intelligenza e una velocità di rilascio palla
eccezionale. A fine anno viene votato dalla famosa rivista Sport Illustrated
come secondo miglior quarterback della lega under 25 ed è anche chiamato al suo
primo Pro Bowl. Le stagioni successive videro un progressivo calo delle
prestazioni della squadra che, negli anni, perse molti giocatori importanti.
Rivers, però, continuava a dimostrarsi uno dei giocatori più affidabili e
precisi e, alla fine della stagione 2010, fu anche votato come miglior
quarterback della NFL. Qualcosa però lo turbava, pur venendo riconosciuto tra i
migliori della lega e uno dei più importanti record-man dei Chargers, non era
ancora riuscito ad andare vicino ad un titolo, mentre i suoi “compagni di
classe”, Manning e Roethilsberger, potevano già vantare dei bei anelli alle
dita. E’ vero che a San Diego c’era effettiva penuria di ricevitori validi che
potessero alzare le quotazioni del team, ma Rivers, col passare delle stagioni,
è passato dall’essere un quarterback d’elite ad un quarterback discreto in una
squadra abbastanza debole, soprattutto dopo le ultime due stagioni in cui ha
lanciato 45 intercetti e perso palla 20 volte.
Quest’anno però, la NFL sta imparando a conoscere
un nuovo Philip Rivers, un giocatore che, maturo dei suoi 31 anni, vuole
dimostrare a tutti di essere tornato quell’ottimo giocatore che era qualche
stagione fa. Molti del miglioramenti di “El
Capitan” dipendono dal nuovo coach, Mike McCoy. Lui e il suo staff hanno
trasmesso a Rivers una nuova confidenza nelle sue capacità e in quelle dei suoi
ricevitori. Giocare in un team con carenza di talento non è facile per nessuno
(chiedere a Tom Brady) e Rivers, quasi sicuramente, aveva perso molte speranze,
abbattendosi e iniziando a giocare un football che non era il suo. Ora i suoi
allenatori gli hanno insegnato a giocare più con la squadra, a creare con ciò
che la difesa avversaria concede e a costruirsi dei lanci affidabili e sicuri,
quei passaggi corti nel mezzo del campo che, però, muovono la catena e
permettono poi di realizzare grandi giocate. La nuova confidenza nei suoi mezzi
gli ha permesso finora di completare il 73.9% dei lanci. Legge molto meglio le
difese e, evento rarissimo nei due anni passati, cambia spesso le giocate per
cercare di realizzare un’azione migliore e sorprendere la difesa. Si posiziona
sulla linea di scrimmage circa 15-20 secondi prima della stagione passata ed
utilizza al meglio uno dei suoi punti di forza: la mente. Rivers è un giocatore
molto intelligente e non fossilizza più l’attacco su una sola azione, ma lo
guida secondo le sue letture, sa dove si giocano i mismatch tra receiver e
linebacker o tra tight end e cornerback e sa dove lanciare la palla prima
ancora che il pass rusher arrivi su di lui.
Crede nella sua linea e crede nei suoi
ricevitori, ma soprattutto è tornato a credere in sé stesso e a giocare nella
tasca come ai tempi d’oro, anche meglio forse. Tante persone lo hanno bollato
come perdente e bollito, Rivers ha dimostrato a tutti i suoi detrattori il
perché è ancora uno dei quarterback più precisi della lega. In queste prime
partite, tanti lanci sono stati eseguiti in maniera perfetta, non dando al
difensore la possibilità di mettere le mani sulla palla e permettendo solo al
ricevitore di catturarla. La connection con Antonio Gates cresce di partita in
partita e vedere come la palla arriva precisa nelle mani dei suoi ricevitori è
davvero un piacere per gli amanti del bel football.
E’ migliorato anche sotto pressione,
situazione che nella passata stagione era diventata un incubo, tanto da fargli
vedere i fantasmi e lanciare la palla nelle mani degli avversari. La sua
percentuale di completamento, quando si trova sotto pressione, è del 61.1% con
un guadagno medio di 7.5
yard e la sua percentuale di accuratezza è del 80.6%,
quattro punti in più di un tale Peyton che sta dominando la lega in questa
stagione. Un’altra abilità che ha ritrovato è quella di andare oltre agli
errori. Quando subisce un intercetto (solamente due finora in stagione) riesce
a passare oltre e continuare a giocare bene. Contro i Cowboys, per esempio, dopo un errore ha completato 20 passaggi su 24 per 249 yard e 2 touchdown.
Per adesso le uniche cose brutte da
guardare sono le sue esultanze, le peggiori in assoluto della lega. Ma ai fan
dei Chargers importa, forse non avranno un team da Super Bowl, ma hanno
ritrovato un grandissimo quarterback.
Ben tornato “El Capitan”!
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