Le premesse c'erano
tutte. Ed erano anche ottime. Dwight Howard, considerato da molti
l'erede naturale di Shaquille O'Neal, per il dominio imposto sotto il
tabellone, la capacità a rimbalzo, la buona propensione offensiva (e
forse anche le percentuali ai liberi) si trasferisce in autunno dagli
Orlando Magic ai Los Angeles Lakers. Come il suo predecessore aveva
fatto nell'estate 1996, con una finale NBA alle spalle, persa però
senza troppe pretese contro una squadra più forte ed esperta, e il
trampolino di lancio perfetto per una carriera da assoluto
protagonista. La stessa spalla avuta da Shaq, Kobe Bryant, rimasto da
sempre nei suoi Lakers a collezionare anelli, ma ora ancora più
forte di 17 anni fa, un playmaker dalle doti eccezionali come Steve
Nash e degli ottimi comprimari pronti ad aiutare Dwight Howard nella
sua scalata all'olimpo. Qualcosa, però, è andato storto.
Dire che la stagione
dei Lakers sia stata fallimentare è storia recente, visto il
cappotto incassato senza nemmeno essere mai entrati in partita in
nessuna delle 4 gare contro San Antonio, vista anche l'assenza del
loro leader assoluto, infortunatosi al tendine d'Achille nel
terzultimo match di regular season. Certo è che era stato proprio il
numero 24 in gialloviola a trascinare la squadra almeno a raggiungere
l'obiettivo che sembrava il minimo traguardo della stagione, ovvero i
playoff, ma che è stato in realtà una chimera per lunghi tratti
dell'anno.
Lasciando per un attimo
da parte le gare contro i texani e analizzando le partite che hanno
portato i californiani alla post season, si possono trarre giudizi
sui singoli. Bryant, nonostante le sue 35 primavere, oltre a essere
diventato il numero 4 nella storia dei realizzatori all time, ed aver
guidato la sua franchigia a rimonte incredibili con la sua solita
classe e canestri decisivi nei minuti finali, ha sfornato per diverse
partite consecutive un numero impressionante di assistenze,
parzialmente coprendo il vuoto delle prestazioni non proprio
esaltanti di Steve Nash, arrivato con grandissime aspettative, ma
troppo spesso bloccato dagli infortuni, che lo hanno limitato. Gasol,
dopo aver faticato non poco per entrare negli schemi di d'Antoni
insieme a D12, ha fornito prestazioni eccellenti nel finale di
stagione, con 2 triple-doppie nelle ultime 6 giocate, playoff
compresi, portando i Lakers al settimo posto e cercando di salvarne
la faccia contro gli Spurs. La panchina, spesso chiamata in causa
visti i numerosi infortuni, non ha esaltato i tifosi dello Staples
Center, anche perché povera di talento, se non nelle buone
prestazioni di Clark, o di veterani in grado di fare la differenza,
escluso Blake, che nella serie playoff è stato tra i migliori.
Stiamo dunque parlando
di una squadra di medio-alto livello, ma ci siamo dimenticati di
colui che avrebbe dovuto portare i Lakers su un altro piano,
quell'Howard che con il suo arrivo ha portato aria di titolo a Los
Angeles. I tifosi, che pensavano di avere vita facile ad Ovest e di
dover trovare il loro avversario nei soli Miami Heat, si sono dovuti
ricredere già da subito, visto la partenza a dir poco in salita dei
gialloviola. Howard non ha deluso solo dal punto di visto delle
medie, non all'altezza delle sue precedenti stagioni, ma soprattutto
sul piano dell'intensità emotiva e di quel suo essere dominante, che
l'aveva contraddistinto su ogni parquet NBA. Chi si aspettava un
nuovo Shaq in città si è sbagliato e di molto, almeno per ora.
Durante la regular
season non ha mai brillato, soprattutto per continuità, e questo non
ha permesso ai Lakers di inanellare una striscia positiva degna di
nota, anche se, nel momento in cui sembrava tutto perduto, i
gialloviola sono riusciti a riprendersi e a prendere per un soffio
l'ultimo treno utile per i playoff, restando in bilico fino
all'ultima gara contro i Rockets che, per altro, ha fruttato loro un
settimo posto del tutto immeritato. Questa “fortuna” però si è
rivoltata contro la squadra di d'Antoni perché San Antonio, giunta
seconda ad Ovest, era proprio l'avversario peggiore per questa
squadra. Quadrati, razionali, dal gioco semplice, ma efficacissimo, i
texani hanno demolito sotto ogni punto di vista i californiani, a
partire dal punteggio in ogni singolo match, mai sotto i 10 di
scarto. E Howard? Anche più deludente che nel resto dell'anno,
sottotono e mai in partita tra le grinfie di Duncan, Splitter e
Bonner che lo hanno fermato da qualsiasi arrembaggio. Non ha mai
messo lo zampino in nessuna delle 4 partite l'ex Magic, che ha pagato
anche le assenze di una squadra per la maggior parte infortunata, ma
che non ha di certo colpito per voglia o predominanza, anzi si è
quasi intimidito di fronte ad avversari così ben organizzati e
capaci di colpire da ogni spiraglio utile verso il canestro.
Shaquille O'Neal, il
centro più dominante della storia NBA nei suoi anni migliori, e non
solo per i canestri demoliti, schiacciava gli avversari sotto il peso
dei suoi canestri e delle sue schiacciate in testa, a rimbalzo
arrivava ovunque pur di strappare il pallone, metteva in campo una
forza e un'energia mai vista. Howard ha ancora molta strada da fare
prima di avvicinare il suo predecessore in gialloviola e meritarsi un
anello, ma prima di tutto deve ritrovare sé stesso, la sua voglia di
fare e di vincere, per “posterizzare” tutti gli ostacoli che gli
si pongono davanti, come ai vecchi tempi in Florida. Anche se di
Shaq, come Shaq, alla Shaq, a mio avviso, ce ne sarà sempre e solo
uno.
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