domenica 10 novembre 2013

TRADE DEADLINE OR TRADE’S DEATH?





Due settimane fa è arrivata puntuale la “trade deadline”, l’ultimo giorno utile per eseguire degli scambi. E puntualmente è passata nella noia più totale e in un sostanziale disinteresse. Tante voci e tanti nomi importati tirati in ballo, ma, alla fine, si è concretizzato solamente uno scambio di minor importanza: il defensive tackle Isaac Sopoaga e una scelta al sesto round passano dagli Eagles ai Patriots in cambio di una scelta al quinto giro. Come mai, a differenza di altri sport, basket NBA e baseball MLB, la deadline NFL non ha appeal?

Il primo motivo è la natura stessa del gioco. Il football americano è uno sport basato sugli schemi e sulla tattica. Inserire giocatori, anche di grandissimo spessore, dentro complicati sistemi di gioco, non è così semplice come in altri sport, nei quali la componente “talento individuale” riesce ad incidere maggiormente e più velocemente. Basta ricordare il pessimo esordio in maglia Vikings di Josh Freeman. Pur essendo stato firmato da free agent e non ottenuto tramite trade, il concetto rimane il medesimo: il trasferimento di un giocatore da un sistema di gioco ad un altro, anche se similari, è problematico. Gli atleti hanno bisogno di tempo per assimilare il playbook del loro team, un lavoro già difficile in estate, con tutto il training camp di fronte, e che a metà stagione diventa molto più complicato.

Un secondo motivo è il tipo di giocatore che una squadra decide di scambiare. Non si sacrificano atleti visti come parte integrante del progetto futuro del team, ma coloro che sono in sovrabbondanza in alcune posizioni, che non si adattano agli schemi del nuovo coach o che occupano troppo spazio nel salary cap. Tradotto: piuttosto che perderlo in cambio di nulla, una squadra preferisce scambiarlo e ottenere qualcosa. Ripensando al sopracitato Freeman, il general manager dei Buccaneers, Mark Dominik, ha cercato in tutti i modi un team disposto a cedergli qualche pedina utile per il suo quarterback, sapendo benissimo però che, a causa dei problemi di Freeman col coach Greg Schiano, avrebbe dovuto tagliarlo nel caso non fosse riuscito a trovare un partner d’affari. E’ importante ricordare che la maggior parte delle trade avviene in seguito ad alcuni infortuni di rilievo. L’affare dell’anno è stato il passaggio di Trent Richardson dai Browns ai Colts e si è verificato proprio perché la squadra di Indianapolis aveva perso per tutta la stagione il suo running back titolare Vick Ballard. Molto probabilmente, i Browns hanno considerato che Richardson non fosse più parte integrante del progetto futuro della franchigia e hanno preferito cederlo ad una compagine bisognosa in quella posizione per ottenere una scelta futura al primo giro del prossimo draft, una merce più che rara, ma dal valore ipotetico.  



Il terzo motivo che mette il freno agli scambi è di tipo finanziario. Il team compratore dovrebbe accollarsi un contratto molto oneroso (per esempio, Jared Allen e i suoi 7,6 milioni di dollari di stipendio lo hanno reso un’opzione poco allettante, pur essendo un giocatore dal riconosciuto valore tecnico) e il team venditore andrebbe ad anticipare la pulizia del salary cap in vista della stagione futura, una prospettiva poco invitante per colui che acquista. Con una  politica finanziaria più oculata e sempre meno soldi da spendere, i team sono meno incoraggiati a comprare giocatori a metà stagione, anche perché la lega impedisce di ottenere denaro liquido da uno scambio. Un modo (legale) trovato dai GM per aggirare questa norma è quello di pagare, al giocatore ceduto, una grossa porzione del contratto e facilitare l’acquisizione da parte della squadra interessata. Sia i Cardinals che i Jaguars, negli affari che hanno portato, rispettivamente, Levi Brown agli Steelers e Eugene Monroe ai Ravens, hanno utilizzato questo metodo. Sarà interessante vedere se questa pratica diventerà di moda.

Il motivo finale è legato al fatidico ultimo anno di contratto. Scambiare un giocatore che in estate sarà free agent porta a due temi principali di discussione: uno con il team che intende ottenerlo sulle scelte al draft da cedere, l’altro con l’agente del giocatore sul contratto. L’importanza degli agenti nel football è vista forse, da noi oltreoceano, come un aspetto marginale, ma la loro importanza è enorme. Quando Randy Moss passò dai Raiders ai Patriots nel 2007, fu perché il suo agente lo convinse a non accettare la proposta di due anni di contratto che offrivano i Packers. L’esempio di Moss è la prova di come sia più difficile decidersi sul contratto dell’atleta che sulle scelte da mandare all’altro team, farlo a metà significa aumentare la difficoltà di trovare un’intesa, dato che il tempo stringe. Esiste anche il sistema delle “compensatory pick” per le squadre che perdono via free-agency i loro giocatori, ma capire come funziona questo metodo è impresa ardua anche per i general manager più esperti.

Ecco dunque i quattro motivi per cui la NFL trade deadline, quest’anno come quelli passati e futuri, è tanto fumo e poco arrosto. L’impatto che un giocatore può avere sulla sua nuova squadra, a metà stagione, è troppo lieve per giustificare la modifica di un roster che viene assemblato e preparato per i sei lunghi mesi estivi di intenso lavoro. Football americano e trading non vanno molto d’accordo perché servirebbe molto più tempo per allenare gli atleti e pensare ai contratti, ma, si sa, il mercato non si ferma mai, è sempre alla ricerca frenetica di affari e la sua natura rapida mal si concilia con quella lenta del football. 


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