Due settimane fa è arrivata puntuale la
“trade deadline”, l’ultimo giorno utile per eseguire degli scambi. E
puntualmente è passata nella noia più totale e in un sostanziale disinteresse.
Tante voci e tanti nomi importati tirati in ballo, ma, alla fine, si è
concretizzato solamente uno scambio di minor importanza: il defensive tackle
Isaac Sopoaga e una scelta al sesto round passano dagli Eagles ai Patriots in
cambio di una scelta al quinto giro. Come mai, a differenza di altri sport,
basket NBA e baseball MLB, la deadline NFL non ha appeal?
Il primo motivo è la natura stessa del
gioco. Il football americano è uno sport basato sugli schemi e sulla tattica.
Inserire giocatori, anche di grandissimo spessore, dentro complicati sistemi di
gioco, non è così semplice come in altri sport, nei quali la componente
“talento individuale” riesce ad incidere maggiormente e più velocemente. Basta
ricordare il pessimo esordio in maglia Vikings di Josh Freeman. Pur essendo
stato firmato da free agent e non ottenuto tramite trade, il concetto rimane il
medesimo: il trasferimento di un giocatore da un sistema di gioco ad un altro, anche
se similari, è problematico. Gli atleti hanno bisogno di tempo per assimilare
il playbook del loro team, un lavoro già difficile in estate, con tutto il
training camp di fronte, e che a metà stagione diventa molto più complicato.
Un secondo motivo è il tipo di
giocatore che una squadra decide di scambiare. Non si sacrificano atleti visti
come parte integrante del progetto futuro del team, ma coloro che sono in
sovrabbondanza in alcune posizioni, che non si adattano agli schemi del nuovo
coach o che occupano troppo spazio nel salary cap. Tradotto: piuttosto che
perderlo in cambio di nulla, una squadra preferisce scambiarlo e ottenere
qualcosa. Ripensando al sopracitato Freeman, il general manager dei Buccaneers,
Mark Dominik, ha cercato in tutti i modi un team disposto a cedergli qualche
pedina utile per il suo quarterback, sapendo benissimo però che, a causa dei
problemi di Freeman col coach Greg Schiano, avrebbe dovuto tagliarlo nel caso
non fosse riuscito a trovare un partner d’affari. E’ importante ricordare che
la maggior parte delle trade avviene in seguito ad alcuni infortuni di rilievo.
L’affare dell’anno è stato il passaggio di Trent Richardson dai Browns ai Colts
e si è verificato proprio perché la squadra di Indianapolis aveva perso per
tutta la stagione il suo running back titolare Vick Ballard. Molto
probabilmente, i Browns hanno considerato che Richardson non fosse più parte
integrante del progetto futuro della franchigia e hanno preferito cederlo ad una compagine bisognosa in quella posizione per ottenere una scelta futura al primo giro del prossimo draft, una
merce più che rara, ma dal valore ipotetico.
Il terzo motivo che mette il freno agli
scambi è di tipo finanziario. Il team compratore dovrebbe accollarsi un
contratto molto oneroso (per esempio, Jared Allen e i suoi 7,6 milioni di
dollari di stipendio lo hanno reso un’opzione poco allettante, pur essendo un
giocatore dal riconosciuto valore tecnico) e il team venditore andrebbe ad
anticipare la pulizia del salary cap in vista della stagione futura, una
prospettiva poco invitante per colui che acquista. Con una politica finanziaria più oculata e sempre meno
soldi da spendere, i team sono meno incoraggiati a comprare giocatori a metà
stagione, anche perché la lega impedisce di ottenere denaro liquido da uno
scambio. Un modo (legale) trovato dai GM per aggirare questa norma è quello di
pagare, al giocatore ceduto, una grossa porzione del contratto e facilitare
l’acquisizione da parte della squadra interessata. Sia i Cardinals che i
Jaguars, negli affari che hanno portato, rispettivamente, Levi Brown agli
Steelers e Eugene Monroe ai Ravens, hanno utilizzato questo metodo. Sarà
interessante vedere se questa pratica diventerà di moda.
Il motivo finale è legato al fatidico
ultimo anno di contratto. Scambiare un giocatore che in estate sarà free agent
porta a due temi principali di discussione: uno con il team che intende
ottenerlo sulle scelte al draft da cedere, l’altro con l’agente del giocatore
sul contratto. L’importanza degli agenti nel football è vista forse, da noi
oltreoceano, come un aspetto marginale, ma la loro importanza è enorme. Quando Randy
Moss passò dai Raiders ai Patriots nel 2007, fu perché il suo agente lo
convinse a non accettare la proposta di due anni di contratto che offrivano i
Packers. L’esempio di Moss è la prova di come sia più difficile decidersi sul
contratto dell’atleta che sulle scelte da mandare all’altro team, farlo a metà
significa aumentare la difficoltà di trovare un’intesa, dato che il tempo
stringe. Esiste anche il sistema delle “compensatory pick” per le squadre che
perdono via free-agency i loro giocatori, ma capire come funziona questo metodo
è impresa ardua anche per i general manager più esperti.
Ecco dunque i quattro motivi per cui la NFL trade deadline, quest’anno
come quelli passati e futuri, è tanto fumo e poco arrosto. L’impatto che un
giocatore può avere sulla sua nuova squadra, a metà stagione, è troppo lieve
per giustificare la modifica di un roster che viene assemblato e preparato per
i sei lunghi mesi estivi di intenso lavoro. Football americano e trading non
vanno molto d’accordo perché servirebbe molto più tempo per allenare gli atleti
e pensare ai contratti, ma, si sa, il mercato non si ferma mai, è sempre alla
ricerca frenetica di affari e la sua natura rapida mal si concilia con quella
lenta del football.
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