Ha
vinto da giocatore 6 Campionati italiani, 4 Coppe dei Campioni, 2
Coppe Intercontinentali, 4 Coppe Italia e, da allenatore, 1 Coppa
delle Coppe e per 2 volte ha ottenuto una promozione in A1. Basta il
suo palmarès per capire quale peso Dodo Rusconi abbia avuto nel
basket italiano. Nato a Varese nel ’46, cresce nelle squadre
giovanili della sua città e nel 1967 esordisce in Serie A nella
grande Ignis Varese, nella quale rimarrà fino al 1975 per poi
tornare, dopo una stagione alla Fortitudo Bologna e una all’Athletic
Genova, nel ’77 e disputare altri 2 campionati. Per il campionato
successivo viene scelto come coach, tanto per cambiare, ai piedi del
Sacro Monte. Negli anni siede esclusivamente su panchine lombarde e
Toscane: Varese (unico allenatore chiamato 3 volte), Vigevano, Pavia,
Pistoia, Livorno, Siena (fanno eccezione solo Bologna e Borgomanero).
Dopo un periodo di inattività ha deciso di darsi al basket giovanile
e dalla stagione 2012-2013 allena i ragazzi dell’Under 15 della
Pallacanestro Albizzate.
Lei
ha un palmarès ricchissimo, nella leggendaria Ignis ha vinto tutto
ciò che si poteva vincere. Quella squadra, al di là della propria
fede cestistica, era un rullo compressore in Italia e in Europa. C’è
un segreto che vi ha portato a stare ai vertici per tutti quegli
anni? Pensa che qualche squadra oggi potrebbe emularvi?
“No,
oggi non c’è nessuno che potrebbe ripetere quello che abbiamo
fatto noi. Abbiamo dominato nel mondo vincendo anche 2
Intercontinentali. È cambiato il tempo, sono cambiate le società.
Il nostro segreto, se vogliamo, era il gruppo. Oggi in molte squadre
il gruppo manca e si vede; se Varese l’anno scorso ha vinto quasi
tutte le partite è anche perché Vitucci aveva formato un gruppo di
giocatori. Il gruppo e il sacrificio, cose che oggi mancano. Quanti
giocatori oggi lavorano per prendere i rimbalzi o fare un passaggio
piuttosto che andare sempre a fare punti? Inoltre noi avevamo una
grande preparazione fisica, siamo stati i primi dopo gli americani a
concentrarci così tanto su questo aspetto e rispetto agli altri
eravamo più pronti. Poi certo, andavi a giocare in URSS e l’Armata
Rossa era praticamente la loro Nazionale e avevano giocatori alti
2.12 che facevano parte del loro esercito ed era difficile fermarli
anche per questioni fisiche. Nonostante tutto però negli scontri
diretti abbiamo vinto noi 2 a 1. Nessuno può emularci, abbiamo fatto
10 finali di Coppa Campioni in 10 anni e ne abbiamo vinte 5, però se
ne abbiamo giocate 10 vorrà pur dire qualcosa.”
In
un momento in cui il basket italiano sembra in crisi e in cui molti
giocatori oltre a Turchia e Israele sembrano preferire anche la
Germania, lei cosa pensa del movimento nostrano?
“No,
la questione non è questa ma sono i soldi. In quei paesi ci sono i
soldi e da noi no. Il campionato italiano non è inferiore a quelli
di quei paesi ma dal punto di vista economico siamo più poveri. Gli
stranieri tante volte non vanno dove converrebbe per la loro carriera
ma dove ci sono più soldi. Che poi il nostro movimento possa essere
in crisi è un altro discorso. La crisi è un problema delle società
e tutto deriva dalla legge Bosman: prima il cartellino era della
società e non potevi liberarti come volevi, invece adesso con questa
legge ognuno va dove vuole (infatti
grazie a questa legge un giocatore al termine del suo contratto può
trasferirsi gratuitamente in un’altra squadra, mentre prima
bisognava pagare comunque un indennizzo alla società). Così
giocatori e società sono in mano ai procuratori, che sbattono i loro
assistiti dove gli conviene. A perderci sono soprattutto le società
che muoiono e non investono nei settori giovanili.”
Cosa
è cambiato maggiormente del basket dei suoi tempi rispetto a quello
di oggi?
“Le
misure del campo! (ride) Sembra
una cosa stupida ma chi ha giocato a basket mi capisce bene! Vorrei
vedere le squadre di adesso giocare su un 12 x 24! È completamente
un'altra cosa. Prima con quei campi così piccoli uno stava sotto
canestro, prendeva il rimbalzo e faceva quello che voleva, c’era
anche meno tempo per pensare. Oggi invece un giocatore può fermarsi,
pensare, decidere quale passaggio è migliore. Quando giocavo io
c’era la gente seduta ai bordi del campo, erano lì di fianco a te
e il clima era diverso, c’era più adrenalina, più sacrificio,
cose che adesso si respirano meno in campo. Un’altra cosa era
l’attaccamento alla società dei giocatori mentre oggi di anno in
anno bisogna ricostruire. Le persone venivano a vederci e si
innamoravano dei giocatori che erano innamorati della società. Io
non vado più al palazzetto perché questa dimensione del basket si è
persa. Oggi l’atleta non si ama più, non rappresenta più quello
che rappresentava una volta. L’ultimo giocatore di cui ci si è
innamorati che ricordo è stato Pozzecco: lui poteva fare quello che
voleva che la gente lo seguiva perché aveva capito che tipo di
giocatore era. Gli altri lo fischiavano ma lo facevano perché
avevano paura, perché se di uno non hai paura cosa lo fischi a
fare?!?.”
Dopo
questo primo scorcio di stagione che idea si è fatto delle varie
squadre?
Anche
l’ultima può vincere il campionato. Io non sto seguendo neanche
più di tanto perché è un gioco che non mi piace quello
che propongono oggi le squadre. Non vedo squadre dominanti. Pensavo
che Milano facesse qualcosa di più ma è partita male anche
quest’anno. Siena la vedo così e così anche se poi queste sono
squadre che hanno elementi che col tempo e nella partite che contano
usciranno fuori. In effetti l’anno scorso Varese ha vinto per tutta
la stagione e poi alla fine si sono sciolti mentre Siena è venuta
qui e ha vinto gara 7. Ora in prima posizione c’è Brindisi e
quello che penso è che il campionato quest’anno sia molto
equilibrato, tutti possono vincere dappertutto ma l’equilibrio che
esiste è spostato verso il basso.”
Lei
ha deciso di allenare una squadra giovanile, cosa pensa dei giovani
del nostro campionato? Crede che altri potranno seguire le orme degli
italiani in NBA?
“Non
lo so, nel senso che da noi non vedo nessuno pronto per l’NBA, però
bisogna vedere anche il livello dell’NBA stessa: più il livello è
basso più è facile andarci. Oggi non vedo un livello altissimo
dell’NBA e molti quindi ci possono puntare. Non mi sembra che gli
italiani che oggi sono lì da noi facessero la differenza, però poi
li vai a vedere e in America sono buoni giocatori con buone cifre e
che spesso partono in quintetto. Hackett? Lui ha un buon
temperamento, all’NBA può puntare. Qui in Italia fa il play ma che
tipo di play è? Il basket di oggi è diverso da quello degli anni
’70 e, mi ripeto, le misure del campo contano è questo non è un
aspetto secondario”.
Varese,
squadra in cui lei ha giocato e allenato, sta passando un periodo di
crisi e non mancano le critiche a coach e giocatori. Come giudica
questo momento della Cimberio?
“Credo
che non sia una questione per cui dare le colpe a qualcuno, purtroppo
si è in mano ai procuratori e questo vuol dire che l’anno scorso
c’era una squadra e quest’anno si è dovuto ricostruire tutto
anche perché, se non sbaglio, sono rimasti 3 o 4 giocatori e quasi
nessuno del quintetto. Poi ricostruire è difficile e si è visto.
Magari non è nemmeno una questione di gioco ma mancanza di talento.
L’anno scorso Vitucci aveva creato un gruppo ma la squadra mi
sembrava anche molto più talentuosa; l’asse play-pivot era
qualcosa di eccezionale, mentre alla squadra di quest’anno sembrano
mancare i riferimenti. Durante l’allenamento provi gli schemi ma
poi li devi fare in partita. Noi abbiamo fatto per 4 anni lo stesso
schema e questo funzionava talmente bene che continuavamo a
riproporlo e nessuno ci fermava. Credo che un allenatore che durante
il time-out usi la lavagna non sia un bravo allenatore. Si lavora in
settimana, cosa vuoi che servano delle linee messe sulla lavagnetta
mentre uno rifiata ed è preso dall’adrenalina?! Io in questi
momenti mi incazzavo se c’era da incazzarsi, davo una strigliata e
poi dicevo lo schema da fare che avevamo provato in allenamento.
Anche perché si disegna sulla lavagna ma poi c’è anche la difesa
che non si muove dove e come vuoi tu. E comunque, per quanto riguarda
Varese, può capitare che ne vinca 2 o 3 di fila e si rimetta in
carreggiata.”
Perché
dopo molti anni da capo allenatore in Serie A ha deciso di
ricominciare dalle giovanili di una squadra di un piccolo paese? Se
arrivasse qualche offerta da qualche squadra senior?
“A
me piace insegnare e voglio farlo ai ragazzi, lo faccio per passione,
perché mi piace il basket. Con gli adulti ho finito, non accetterei
neanche una squadra di B1 o B2 perché ho scelto una strada diversa.
Potrei andare a insegnare qualcosa ai grandi ma non da coach, però
poi vai dai grandi e cosa vogliono imparare?! Oggi il basket è
cambiato, è diverso, c’è un’altra mentalità. Preferisco i
ragazzi, almeno mi tengo attivo anche io!”
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